Quella in cui viviamo è anche l’epoca dell’inquietudine, soprattutto per quanto riguarda le società ricche: circa un terzo della popolazione americana soffre di disturbi d’ansia, con una prevalenza delle femmine sui maschi e dei giovani rispetto ai più maturi. Un problema per individui e famiglie ma anche, in un certo senso, fonte d’ispirazione: crisi, spaesamento e timore del futuro sono infatti temi ben presenti nella narrativa e nell’arte contemporanee, da Kafka a Munch passando per John Cage e Breaking Bad.
Età dell’angoscia dunque, ma anche della creatività e della diffusione della cultura di massa. C’è però chi si contrappone con decisione a ogni possibile mitizzazione del malessere, secondo il noto stereotipo dell’artista maledetto: ad esempio Arash Javanbakht, fresco autore di un libro che indaga sulle origini biologiche ed evolutive della paura e che fornisce una panoramica di come oggi i medici trattino traumi e ansie. “Mentre alcuni vedono i dipinti di Vincent Van Gogh e le poesie di Sylvia Plath come il risultato diretto di psicosi e depressione […]personalmente credo che questi siano stati prodotti nonostante le angosce dei loro autori, piuttosto che a causa di queste”, spiega il medico e docente di psichiatria alla Wayne State University di Detroit in un articolo apparso su The Conversation.
La tesi è che di norma l’ansia eccessiva porti l’organismo a concentrarsi sui processi vitali tralasciando tutti gli altri; le menti particolarmente sensibili e fantasiose inoltre, essendo particolarmente portate all’immaginazione, presenterebbero secondo Javanbakht la tendenza a ingigantire pericoli e minacce. Un problema non da poco in un’epoca come quella attuale, nelle quale tutto viene vissuto come prestazione e in cui fin dalla più tenera età tutte le attività, dalla scuola ai lavori apparentemente meno concettuali e più ripetitivi, sembrano comunque richiedere una dose sempre più elevata di partecipazione emotiva.
Come evitare dunque che l’ansia si trasformi in un ostacolo insormontabile? Lo chiediamo a Gioia Bottesi, ricercatrice e docente di psicodiagnostica clinica presso il Dipartimento di Psicologia generale dell’università di Padova. “L'ansia è definibile come anticipazione apprensiva delle conseguenze negative di un evento futuro, e sottende una certa quota di intolleranza all’incertezza”, esordisce la studiosa, aggiungendo che “a un aspetto cognitivo, caratterizzato da un pensiero negativo ricorrente orientato al futuro, possono accompagnarsi anche manifestazioni somatiche come tachicardia, iperventilazione, sensazione di oppressione al petto e talora sudorazione”.
“ Come anticipazione apprensiva delle conseguenze negative di un evento futuro, l'ansia sottende sempre una certa quota di intolleranza all’incertezza
In quanto preparazione ad affrontare una minaccia, la reazione ansiosa non è di per sé un male; “Non andrebbe evitata forzatamente né demonizzata – continua Bottesi –: diverse ricerche indicano anzi che un livello moderato di ansia, se promuove un buon ingaggio, può essere ottimale per eseguire una prestazione. Quello che chiaramente fa la differenza è la portata dell’investimento ansioso, da commisurare all’effettiva imminenza e gravità dell’evento”.
Per la ricercatrice, che esercita anche la professione di psicoterapeuta presso il Centro di Ateneo dei Servizi clinici universitari psicologici (Scup), il discorso vale anche per l’atto creativo. Se l’ansia è eccessiva essa può avere un effetto disorganizzante e inficiare la prestazione, che di conseguenza potrebbe essere eseguita in maniera poco lucida o addirittura venire bloccata o paralizzata: “sul cosiddetto freezing la letteratura suggerisce che potrebbe trattarsi di un retaggio a livello evolutivo, come quando alcuni animali si fingono morti per sfuggire a un predatore; per altri invece l’obiettivo sarebbe quello di procrastinare l’azione, in modo da poter preparare meglio le risposte allo stimolo minaccioso. Una sorta di standby, ovviamente non processato in maniera consapevole dalla persona”.
Che fare dunque? “Gli interventi oggi più promettenti sono basati soprattutto sull’orientamento cognitivo comportamentale, e hanno l’obiettivo di rendere la persona più consapevole e di fornirle alcune strategie per la gestione dei pensieri negativi. In particolare è importante imparare a gestire l’incertezza, piuttosto che tentare di eliminarla: tante volte non poter prevedere il futuro non ha necessariamente una connotazione negativa, ma anzi può essere addirittura sfidante. Da questo punto di vista letteratura recente mette in evidenza come sia utile essere stimolati fin da bambini al gioco avventuroso, rifuggendo ansie di controllo che spesso rischiano di stimolare l’ansia più che attenuarla. È inoltre determinante incoraggiare la curiosità, che abitua alla ricerca di soluzioni per affrontare ciò che ancora non si conosce”.
Tenere tutto sotto controllo ha insomma un effetto ansiogeno piuttosto che ansiolitico, anche se si tratta di un atteggiamento profondamente radicato nell’epoca in cui viviamo: “Lo sa che un recente studio canadese mette in relazione la difficoltà a tollerare l’ignoto con l’aumento degli accessi a internet? L’ipotesi è che negli ultimi anni l’enorme disponibilità di informazioni in tempo reale possa aver disabituato soprattutto le nuove generazioni a convivere con l’incertezza. Se poi mettiamo tutto questo insieme con la tendenza a tenere i bambini sotto una campana di vetro, la recente pandemia e il cambiamento climatico, vediamo che le nuove generazioni sono bombardate di incertezza, senza però essere state formate per conviverci”. E negli ultimi tempi ci si è messa anche la guerra. Sì: viviamo decisamente il tempo dell’ansia.