SCIENZA E RICERCA

I satelliti in aiuto della biodiversità

La perdita di biodiversità è una delle manifestazioni più preoccupanti della crisi ambientale. Essa ha gravi conseguenze non solo per la riduzione della funzionalità degli ecosistemi e la disregolazione della biosfera, ma ha anche un profondo impatto sulle società umane, che dai cosiddetti servizi ecosistemici – cioè, i benefici che specie ed ecosistemi offrono – dipendono in maniera diretta e inevitabile.

Finalmente, dopo anni di sottovalutazione e tentennamenti, anche il mondo della politica sembra aver compreso la gravità di questa crisi e l’urgenza di farvi fronte. Nel dicembre del 2022, a Montréal (Canada), i 192 Stati firmatari della Convenzione sulla Biodiversità (CBD) hanno sottoscritto il post-2020 Global Biodiversity Framework (GBF), un documento programmatico (anche se, come la maggior parte degli accordi internazionali in tema di tutela ambientale, di natura non vincolante) con obiettivi ambiziosi al 2030 e al 2050. Il GBF si articola in quattro macro-obiettivi: proteggere la biodiversità ad ogni livello (dalla diversità genetica a quella ecosistemica) e prevenire le estinzioni; garantire che la biodiversità soddisfi i bisogni delle persone e supporti i diritti umani fondamentali; garantire che i benefici derivanti dallo sfruttamento della biodiversità e delle risorse genetiche siano condivisi in modo equo, e che i diritti dei popoli indigeni e delle comunità tradizionali siano rispettati; rendere disponibili mezzi adeguati per l’implementazione delle misure individuate.


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Anche per la tutela della biodiversità, come nella lotta alla crisi climatica, l’Unione Europea ha assunto il ruolo di capofila delle negoziazioni internazionali. Infatti, già nel maggio 2020 la Commissione Europea aveva approvato la Strategia dell’UE sulla Biodiversità per il 2030, articolata in 16 target da raggiungere entro la fine del decennio in corso e strutturata intorno a quattro pilastri: istituire una rete coerente di aree protette; lanciare un piano europeo per il ripristino della natura; rendere possibile il cambiamento trasformativo; agire per affrontare la crisi globale della biodiversità.

Per raggiungere questi obiettivi, che sono costantemente monitorati a livello comunitario, esistono diversi strumenti. Tra questi, vi sono gli strumenti necessari alla vigilanza del mondo naturale, allo scopo di valutare l’efficacia delle misure adottate e avere consapevolezza del livello di degradazione o protezione dei diversi ecosistemi. Le tecnologie impiegate su questo fronte sono in continua evoluzione, e tra quelle che si sono mostrate più utili per il monitoraggio della biodiversità vi è senz’altro l’osservazione della Terra tramite satellite.

Questa modalità di raccolta dei dati contribuisce a popolare il Knowledge Centre for Biodiversity (KCBD), istituito dalla Commissione Europea nell’ottobre 2020, che rappresenta una delle prime misure attuative della Strategia sulla Biodiversità per il 2030.

In un rapporto “Science for Policy” recentemente pubblicato dal Joint Research Centre, si fa il punto sullo stato di utilizzo dei dati raccolti dal Knowledge Centre on Earth Observation (KCEO) della Commissione Europea, il centro che si occupa di raccogliere e utilizzare i dati provenienti dal programma europeo di osservazione satellitare Copernicus.

Secondo il rapporto, che è innovativo non solo per i suoi contenuti, ma anche per la forma – si tratta di una sperimentazione, un “rapporto pilota”, del metodo deep dive: in breve, un’analisi verticale e molto approfondita di un tema specifico, condotta da un punto di vista scientifico ma con l’obiettivo di fornire informazioni utili per i decisori politici.

In questo caso, l’esercizio di ‘deep-dive assessment’ (valutazione ‘in profondità’) è concentrato sul potenziale contributo delle tecnologie di osservazione satellitare della Terra per la tutela e il ripristino della biodiversità. Come spiegano gli autori del rapporto, l’osservazione satellitare, già oggi piuttosto avanzata, è uno strumento di grande valore per monitorare lo stato di salute e la progressione della degradazione o del recupero di determinati ecosistemi, strumento che può essere applicato tanto agli ambienti terrestri e d’acqua dolce quanto – seppure ancora con alcune difficoltà da superare – agli ambienti marini.

Eppure, molto può ancora migliorare: attraverso l’esplorazione di una serie di “casi di utilizzo” delle tecnologie satellitari per le politiche sulla biodiversità, gli autori del rapporto hanno messo in evidenza i punti ciechi e le carenze tecniche e di condivisione delle informazioni che devono essere ancora affrontate.

Un esempio di particolare interesse riguarda la biodiversità in ambienti urbani: in questi contesti, per i quali la Strategia europea prevede un consistente aumento della biodiversità (attraverso, ad esempio, l’istituzione di nuove isole verdi e la piantumazione di alberi), immagini satellitari ad altissima risoluzione adeguatamente condivise tra tutti gli attori istituzionali in gioco rappresenterebbero uno strumento di grande rilevanza per il raggiungimento degli obiettivi individuati a livello comunitario.

In generale, è stata rilevata come problematica la non corrispondenza tra la risoluzione spaziale e la risoluzione temporale dei dati a disposizione. In altre parole, se il livello di dettaglio è ormai molto avanzato dal punto di vista geografico (le immagini a disposizione sono molto dettagliate, in alcuni casi offrendo la possibilità di osservare nel dettaglio fino a pochi metri dal terreno), la situazione è molto diversa per quanto riguarda la copertura visuale di un dato spazio nel tempo. Si tratta, tuttavia, di un elemento di conoscenza cruciale per comprendere le tendenze di cambiamento della biodiversità e degli ecosistemi: questi, infatti, si modificano nel tempo, a velocità più o meno marcate a seconda del tipo di sollecitazioni provenienti dall’ambiente circostante. Avere delle serie storiche dettagliate e continuative arricchirebbe i dati di un ulteriore livello di complessità, offrendo ai decisori politici una visione d’insieme più completa sulla storia e, potenzialmente, sulle traiettorie future di cambiamento degli ambienti naturali.

Un’ulteriore raccomandazione fornita dai ricercatori del JRC consiste nel potenziare gli investimenti per la creazione di dataset più completi di immagini raccolte non da satelliti, ma provenienti da tecnologie in-situ (termine con cui ci si riferisce a tutte le tecnologie di osservazione della Terra basate non nello spazio, ma sulla terra o in acqua). Infine, gli autori del rapporto suggeriscono di destinare risorse alla creazione di infrastrutture che permettano di operare una efficace integrazione dei molti dati disponibili. Il Knowledge Centre for Biodiversity si muove proprio in questa direzione, con l’obiettivo finale di rendere i dati accessibili non solo per gli addetti ai lavori e i policy-makers, ma anche per i comuni cittadini.

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