SOCIETÀ

Derive populiste: "Il rischio è una torsione illiberale delle democrazie"

L’estrema destra continua a fare il pieno di consensi in ogni angolo d’Europa, e non soltanto. Il Portogallo, con la clamorosa affermazione del partito populista Chega che ha quadruplicato i suoi seggi in Parlamento, è soltanto l’ultimo tassello che si aggiunge all’enorme quadro che ormai collega l’Olanda alla Spagna, la Grecia alla Slovenia, che sta per deflagrare in Francia e in Germania, per non dire delle situazioni ormai consolidate in Italia e in Austria, fino ai paesi del Nord Europa, su tutti Svezia e Finlandia, e dell’Est. Quel che stupisce è l’enormità del fenomeno, che si replica puntualmente con modalità simili, come se si trattasse di un unico schema. Come se bastasse “unire i puntini” per scorgere il disegno globale, che poi è con ogni evidenza la spia di un disagio globale. Un processo che appare inarrestabile, quasi “inevitabile”, nonostante assai spesso queste espressioni dell’estrema destra populista scivolino ben oltre il limite del “politicamente presentabile”. Alla base del fenomeno (non recentissimo, ma che continua a proliferare) c’è di certo la rabbia, la delusione degli elettori che non vedono più soluzioni nell’offerta politica dei partiti tradizionali, la disperazione conseguente alla crisi sociale ed economica che sta spingendo sempre più ampie porzioni del “ceto medio” verso la soglia della povertà. E quando le risposte concrete non arrivano, ecco che l’unica soluzione, o comunque la più rapida, è dar credito a chi si propone di “abbattere” quel sistema  (uscendo dall’Europa l’esempio più emblematico è quello dell’Argentina, dove è stato recentemente eletto Javier Milei, il presidente con la motosega, definito da El Pais “un mix tra un predicatore messianico e una rockstar”). Ma demolire un sistema comporta sempre dei rischi, anche se questa “distruzione” avviene con strumenti all’apparenza innocui, graduali. In un’analisi pubblicata alcuni anni fa sul sito Open Democracy si leggeva tra l’altro: «La violenza non è più il mezzo preferito con cui i partiti di estrema destra sovvertono l’ordine democratico. Negli ultimi anni figure come Bolsonaro, Orban e Trump hanno imparato, con un grado di efficacia sempre maggiore, che possono usare le libertà e le istituzioni democratiche per minare la democrazia dall’interno. Le minoranze sono spesso un bersaglio, ma non è raro che gruppi come le élite intellettuali o ampie categorie, come la “sinistra”, vengano utilizzati come veicoli per mobilitare i loro seguaci. Una volta al potere, erodono le istituzioni democratiche intromettendosi nelle agenzie governative e nei tribunali».

Per comprendere meglio le ragioni di questa sconfinata “ubriacatura” di voti a favore della destra più estrema abbiamo interpellato una studiosa della materia, Giorgia Serughetti, ricercatrice in Filosofia politica presso il dipartimento di Sociologia e ricerca sociale dell’Università di Milano-Bicocca, autrice di un saggio (“Il vento conservatore”, Laterza, 2021) dedicato proprio ai rapporti tra destra radicale, populismo e democrazia.

I partiti populisti stanno conquistando ovunque consensi e governi: come mai una destra del genere, così smaccatamente estremista, nazionalista, xenofoba, che fonda le sue radici sulla difesa dei confini e sulla contrazione dei diritti delle minoranze, piace così tanto agli elettori?

«Queste forze politiche offrono qualcosa che piace ai singoli e alle collettività: il senso di “protezione”. Un argomento che, in un tempo come quello che stiamo vivendo, afflitto da molteplici crisi (pandemica, economico-finanziaria, energetica, perfino bellica), è diventato capace di drenare molti consensi. Si tratta di crisi di natura diversa, ma che hanno fatto comunque percepire collettivamente un’ansia, un’insicurezza a cui la destra ha saputo rispondere in termini che sono apparsi convincenti. C’è poi da considerare anche la forte perdita di potere sociale delle persone, una marginalizzazione dovuta alla crescita delle disuguaglianze, al progressivo impoverimento: tutti effetti provocati da quello che si può definire “dominio del neoliberismo”. È la razionalità neoliberista che ha compromesso la fiducia nelle democrazie, che evidentemente si sono dimostrate incapaci di trovare risposte ai bisogni delle persone. Ed è per questo che c’è chi va a cercare una soluzione in un’offerta politica autoritaria e conservatrice, invece di rivolgersi a piattaforme che parlano di giustizia sociale, inclusione, riduzione delle disuguaglianze. Ad esempio, questa grande enfasi sul “fare da sé”, nel presentare la libertà individuale come chiave per “riuscire nella vita”, ha desertificato il campo semantico della politica progressista, rendendo inutili e desuete parole come uguaglianza, solidarietà, libertà».

Dunque una bocciatura dei governi a guida “moderata” degli ultimi decenni?

«Assolutamente sì. Perché in quei decenni anche l’offerta della sinistra si è dimostrata indistinguibile da quella della destra liberista. La guida “moderata” ha fatto sì che scendessero in campo due visioni del tutto simili: una un po’ più di destra, una un po’ più di sinistra. Ma con le stesse ricette, soprattutto di carattere economico sociale, legate alla privatizzazione, con un forte accento sulla competitività e una progressiva restrizione, se non demolizione, dell’intervento pubblico, delle politiche di welfare. Pensiamo alle politiche di austerità seguite alla crisi del 2008: sono state messe in campo da forze politiche di entrambi gli schieramenti. Entrambi si sono ritrovati nello slogan “There Is No Alternative”, di tatcheriana memoria. Come se quella fosse l’unica strada percorribile. Dunque sì, è una clamorosa bocciatura politica. Che poi è lo specchio di un disagio di chi si sente deprivato in termini economici, anche proveniente da strati della popolazione che non possiamo certo definire “perdenti della globalizzazione”. Queste forme di rivolta non provengono più soltanto da territori deindustrializzati, impoveriti, ma si verificano oramai anche nelle aree più ricche e produttive».

Colpisce l’enormità del fenomeno, che sta accadendo davvero ovunque. È reversibile a suo avviso? C’è da preoccuparsi per la tenuta delle democrazie?

«Più che di derive autoritarie in senso classico, secondo me il rischio maggiore è quello di una “torsione illiberale” delle democrazie. Un’interpretazione in termini maggioritari dove chi vince conquista lo stato, l’intero potere decisionale, anche a rischio di mettere in discussione diritti e libertà riconosciute a livello internazionale. E bisogna dire che l’Unione Europea, almeno finora, non sta dimostrando neanche lontanamente la forza di difendere un progetto che sia frontalmente opposto a quello dei nazionalismi risorgenti, nonostante l’Europa nasca proprio dal rifiuto dei nazionalismi, con il Manifesto di Ventotene di Altiero Spinelli, e dal bisogno di superarli. Oggi assistiamo invece, ed è un paradosso, a una diffusa timidezza da parte delle classi dirigenti europee, soprattutto del Ppe. Che osservano con timidezza la crescita di quei partiti di destra cosiddetta conservatrice o identitaria, ma che mescola elementi chiaramente di estrema destra. Fino ad adottarne l’agenda. E la sinistra non sta riuscendo a offrire un’alternativa all’altezza della sfida. Quel che sta accadendo, in tutto il mondo, è a mio avviso evidente: è in corso una protesta potente contro la globalizzazione guidata dai mercati, contro l’idea di un mondo dalle frontiere aperte dove tuttavia sono state le persone a pagare il prezzo più alto in termini di sicurezza, di uguaglianza e di libertà. Il problema viene letto correttamente, ma la risposta stenta ad arrivare. Quando si sente il presidente americano Biden sostenere la necessità d’introdurre una tassazione più progressiva, che vuol dire far pagare più ai ricchi per finanziare politiche sociali, si intravede un’inversione politica di tendenza. Sarebbe una rivalutazione del ruolo dello Stato, dopo un lungo periodo in cui si è pensato allo Stato come il problema e al mercato la soluzione. Ora si è compreso benissimo che il mercato non è la soluzione ai problemi e che lo Stato non può e non deve farsi da parte. La pandemia, durante e dopo, ha dimostrato che senza Stati capaci di drenare e distribuire risorse non è possibile sopravvivere».

E l’intolleranza? La crescente xenofobia?

«Fa tutto parte di quel bisogno di protezione di cui parlavamo prima. La necessità di darsi un’identità collettiva trova nell’appartenenza nazionale la sua forma più facile, sentirsi “parte” di una comunità che si chiude ed esclude. Quel tipo di identità, a portata di retorica, è la prima delle forme di identificazione reciproca che meno richiedono la mediazione politica. È intesa come “naturale”. Quando qualcuno viene a dirci “prima gli italiani” comprendiamo subito cosa vuol dire. Ma questo induce una mentalità che facilita i comportamenti intolleranti, umilianti verso persone straniere che vivono nel nostro territorio. Laddove sono dipinti alternativamente come forza lavoro da sfruttare, o come popolazione pericolosa, riesce più semplice collocarli nelle carceri o nei centri di espulsione. Poi viene da sé che si interiorizzi, che si assorba un certo modo di vedere in modo gerarchico la società, e dunque la possibilità di disumanizzare anche nel quotidiano le persone che rispondono a quel tipo di cliché. Ascoltare ogni giorno discorsi razzisti fa diventare tutti un po’ razzisti, tentazione in realtà presente nell’animo umano, il distinguere il “noi” dal “loro”. Ma è, o dovrebbe essere, il lavoro della “civilizzazione” del nostro stare insieme che contrasta questa esigenza. E quando la politica smette di fare quel lavoro, ma anzi manda messaggi contrari, si arriva al punto che non è più nemmeno necessario ascoltare ogni giorno un discorso razzista perché le persone si sentano autorizzate a “sentirsi” razzisti: irradiazioni di questi comportamenti verso la frontiera del “diverso” che va a coinvolgere sempre nuovi soggetti. Questo è un rischio democratico davvero enorme».

Sembra che la politica stia ormai scivolando in secondo piano rispetto alle figure dei leader.

«È il meccanismo classico del populismo: produce l’illusione che si possa concepire il leader come entità omogenea, identitaria, nazionale, di discendenza etnico-razziale. E che è proprio lui, o lei, la soluzione ideale perché scavalca una serie di mediazioni e di filtri. Che a interpretare il volere del popolo sia un leader forte. Questo è l’esito di un lungo tempo, che dura fin dagli anni 70, di messa in discussione della democrazia come complesso sistema di procedure che prevede l’ascolto, la ricezione delle domande che provengono dai cittadini, seguito poi dalla discussione e soltanto alla fine dalla decisione. Ora invece è tutto spostato verso la decisione, con il leader che incorpora il volere del popolo. Non c’è più davvero una mediazione democratica. Pensiamo a tutta la discussione sulle democrazie “capaci di decidere”, senza farsi rallentare e appesantire dalle domande sociali: è stato un decorso lungo che non si sono inventati i populisti. È stato un attacco alla “fatica” democratica, in un tempo in cui si imputava la crisi della democrazia all’eccesso di domande. Da qui la tendenza, avallata anche da partiti di sinistra, a favorire la “governabilità”, il potere decidente degli esecutivi, una visione della democrazia che enfatizza il potere esecutivo su quello deliberativo-legislativo. Per fare un esempio che ci riguarda da vicino: la riforma sul premierato proposta in Italia dal governo Meloni va esattamente in quella direzione».

A giugno ci sarà l’appuntamento, cruciale, con le elezioni europee. E il principale gruppo, il Ppe, sta apertamente tentando una “mediazione” con Ecr, i Conservatori e Riformisti, gruppo al quale appartiene anche Fratelli d’Italia. Secondo lei, è verosimile immaginare che ne uscirà un’Europa più spostata a destra?

«È molto verosimile. Naturalmente bisognerà vedere i voti reali, capire se Ppe e Ecr avranno i numeri per governare da soli. I partiti europei di destra puntano tutto sull’esperimento italiano traslato in Europa: l’alleanza tra la destra cosiddetta liberal-popolare-moderata con quella radicale che loro stessi chiamano “conservatrice”, definizione che io personalmente rifiuto perché ne edulcora profondamente la natura. Ricordiamo che all’interno del gruppo Ecr c’è l’estrema destra francese di Reconquête, il PiS polacco, gli spagnoli di Vox, tutte formazioni che, per dirne una, non tengono nella minima considerazione istanze come i diritti delle donne, o delle minoranze sessuali e razziali. Ritengo che l’offerta politica proposta da queste formazioni sia eversiva nei confronti delle carte fondamentali dei diritti. Una posizione che dovrebbe far tremare i polsi. Invece questa facilità con cui, a Bruxelles, stanno ragionando sull’opportunità di stringere alleanze snatura profondamente, a mio avviso, il Partito Popolare Europeo e mette seriamente a rischio alcuni impegni importanti dell’UE, come quello sulla transizione ecologica. Emblematica la recente protesta degli agricoltori. Con la presidente della Commissione UE, Ursula von der Leyen, che pur avendo investito molto su quel progetto ha deciso di fermare tutto (lo stop alla legge sui pesticidi, ndr) per non andare a toccare possibili equilibri a destra. Che poi, per restare alla protesta degli agricoltori: è indispensabile saper distinguere le legittime rivendicazioni sociali di una categoria, e la richiesta di protezione sociale di imprese e persone vulnerabili, dalle rivendicazioni lobbistiche di un settore che ha dalla sua la forza di poter “danneggiare” alcune forme di potere politico. In quel caso diventa una cosa diversa. E la fretta con cui la destra è salita sui trattori ci dice che lì, su quel terreno, si giocherà una delle grandi partite del futuro. È ormai evidente che anche la transizione ecologica è diventata un tema di polarizzazione politica. Non lo era fino a poco tempo fa, finché la destra non ha parlato di “ambientalismo ideologico”, vale a dire l’idea che chi sta a destra non trascura il tema dell’ambiente ma vuole essere pragmatico, spalmare un intervento nell’arco di decenni. A differenza di coloro che chiedono invece più vigore, più radicalità, e che perciò vengono tacciati di ideologia: mentre in verità si tratta semplicemente di un approccio bastato sui dati della scienza».

Europa più marcatamente a destra, Trump con buone possibilità di tornare, a novembre, alla Casa Bianca, per non dire della solidità dei regimi di Putin e Xi Jinping: come si sta modificando il quadro internazionale? 

«Si apre una stagione in cui ne andrà della possibilità di preservare e mantenere in vita la democrazia come la conosciamo. Le democrazie già oggi stanno rischiando di essere erose dall’interno. E questo processo non potrà che essere accelerato in un contesto globale in cui in tanti paesi questi leader “forti” impongono una linea marcatamente antidemocratica, portando a uno snaturamento della democrazia. E poi c’è la questione della pace e della guerra. C’è addirittura chi spera che una vittoria di Trump negli Stati Uniti possa mettere fine alla guerra in Ucraina, come se l’imposizione del concetto “ognuno a casa sua” fosse garanzia di stabilità. Non è così: i nazionalismi risorgenti sono una fonte inevitabile di conflitti tra nazioni e rinfocolano quella “tensione bellicista” con la quale oramai conviviamo. A me fa impressione quanto sia tornata all’ordine del giorno la questione delle guerre, non soltanto perché ci sono, ma perché continuamente parliamo di spesa per gli armamenti. Stiamo scivolando, quasi senza accorgercene, nella mentalità guerrafondaia che accetta la guerra o come una possibilità o come un evento inevitabile. E quando gli Stati si riarmano tutto diventa possibile. Fa impressione che noi italiani arriviamo a “vantarci” di essere tra i più grandi sovvenzionatori di armi in Ucraina: noi che soffriamo di carenza cronica di risorse in tutti i settori, dalla società alla scuola, ai servizi. Ecco, esaltare questo primato racconta dove si stanno spostando le risorse, e quindi viene il sospetto che forse si sta tentando di salvare il capitalismo attraverso l’economia di guerra. Ma il progetto di globalizzazione sta fallendo. Anzi, probabilmente è già fallito».

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