I festeggiamenti dei sostenitori di Javier Milei a Buenos Aires. Foto: Reuters
La rabbia, quando arriva a questi livelli, diventa incontenibile. Come un’onda di piena che travolge qualsiasi ragione, qualunque segnale di pericolo, qualsiasi pensiero che vada oltre il perimetro della propria sopravvivenza, dopo decenni di tracollo economico, d’inflazione a tre cifre, di corruzione, di ruberie, di promesse puntualmente infrante, di povertà implacabile. È la rabbia di chi ha perso tutto, di chi ha perso perfino la speranza. Così l’Argentina, la seconda economia più grande del Sud America, ma anche il paese con il più grande debito al mondo verso il Fondo Monetario Internazionale (43,7 miliardi di dollari), ha deciso di voltare pagina, compiendo un passo che definire pieno d’incognite sembra quasi riduttivo. Il risultato del ballottaggio, che si è svolto domenica scorsa, spinge alla presidenza del paese sudamericano un ultraliberista di estrema destra che gli amici chiamano el loco, il pazzo, per via dei suoi frequenti e imprevedibili scatti d’ira. Javier Milei, che il 10 dicembre s’insedierà come nuovo presidente dell’Argentina, ha promesso che abolirà la Banca Centrale (a dire il vero ha sostenuto che bisognerebbe “darle fuoco”) e che vuole “dollarizzare” l’economia, ossia adottare il dollaro statunitense come valuta ufficiale dell’Argentina, perché questa è a suo avviso la soluzione per arginare la catastrofe economica che ha spinto oltre il limite della povertà il 40% dei 45 milioni di argentini. Ora, se non altro, si capirà di che pasta è fatto questo stravagante personaggio, definito da El Pais “un mix tra un predicatore messianico e una rockstar”, ex docente di economia, ex opinionista televisivo, privo di qualsiasi esperienza politica ma capace d’incendiare gli entusiasmi dei suoi più sfrenati sostenitori (Milei è a capo della coalizione di estrema destra “La Liberdad avanza”) dichiarandosi favorevole all’uso indiscriminato delle armi, promettendo la privatizzazione dell’istruzione e dell’assistenza sanitaria, salvo poi platealmente smentirsi e dire l’esatto contrario nella campagna elettorale per il ballottaggio, proprio per convincere gli strati più moderati dell’elettorato. Strategia riuscita, visto il risultato finale, schiacciante: 55,7% delle preferenze, vale a dire oltre 14 milioni di voti ricevuti, come lui nessuno mai nella storia democratica dell’Argentina. Anche se bisogna dire che il suo sfidante, Sergio Massa, ministro uscente dell’economia, nonostante le misure populiste dell’ultim’ora (aveva fatto approvare una legge che aboliva le imposte sul reddito alla quasi totalità dei lavoratori dipendenti) era il simbolo stesso del “kirchnerismo”, lo stile di governo imposto, nel solco del peronismo, dagli ex presidenti di centrosinistra Néstor e Cristina Kirchner. Lui stesso un frutto di quella politica che aveva portato l’Argentina in fondo al burrone. Il che naturalmente non esclude che ce ne sia un altro, di dirupo, in un futuro più o meno prossimo.
Un voto “contro”, a qualsiasi prezzo
«Questo voto puzza di disperazione», ha sintetizzato, con efficacia, Benjamin Gedan, direttore dell’istituto di ricerca e consulenza Wilson Center Argentina Project. «Molti argentini hanno votato consapevolmente contro i loro interessi economici perché riconoscono che lo status quo è catastrofico. E non c'era motivo di credere che l’attuale ministro delle finanze, Massa, potesse plausibilmente essere la risposta. Milei è una scommessa enorme, ma non del tutto irrazionale». Ha raccolto voti praticamente ovunque: tra i giovani, grazie anche all’utilizzo disinvolto dei social (su Instagram ha 4 milioni di follower), ma anche tra le fasce più povere della popolazione, tra i disoccupati, tra le famiglie che non riescono più ad arrivare alla fine del mese, tra tutti coloro che sono stati affondati dalla crisi economica. Tra tutti i delusi, i traditi dai partiti tradizionali, di destra e di sinistra, che nel rimpallarsi le responsabilità di governo in questi ultimi decenni non sono riusciti minimamente a invertire il corso degli eventi, in una crisi che travalica qualsiasi ideologia. E allora ecco le esultanze di fronte alle motoseghe imbracciate da Milei durante i suoi comizi a simboleggiare i tagli drastici che intende fare (soprattutto alla spesa sociale: le classi più povere che pure l’hanno votato saranno le prime a subirne le conseguenze). O i cori di giubilo verso chiunque parli male della politica e dei politici («lo Stato argentino è un’organizzazione criminale che si finanzia attraverso le tasse prelevate alle persone con la forza», aveva sostenuto durante un comizio). Perfino gli attacchicontro Papa Francesco («un imbecille, un comunista») sono stati tollerati dalla gran parte dell’elettorato.
Andrà male? Tanto andava già malissimo, continuare su quella strada non avrebbe avuto senso. E ulteriori alternative non c’erano a quel buffo (o spaventoso) personaggio soprannominato anche el peluca (la parrucca, per via dei suoi capelli innaturalmente folti), che si autodefinisce “anarco-capitalista”, che in passato si esibiva come cantante in una cover band dei Rolling Stone e che oggi teorizza la legalizzazione del traffico di organi umani («è un mercato come un altro») e delle adozioni, che è fermamente contrario all’aborto (in Argentina è legale dal 2020), come è contro il riconoscimento dei diritti delle donne, che è ossessionato dal socialismo («è il male assoluto»), che nega l’esistenza di una crisi climatica («è una menzogna socialista»). E che oggi promette di ribaltare il tavolo, mettendo l’intera economia nelle mani del mercato, privatizzando tutto il possibile, dalla tv pubblica TVP alla compagnia aerea di bandiera Aerolíneas Argentinas. «Rimetteremo in piedi l’Argentina e tra 25 anni saremo una potenza mondiale», ha promesso nel suo primo discorso dopo l’elezione. «Oggi comincia la fine della decadenza: voltiamo pagina. Servonocambiamenti drastici, non c’è spazio per gradualismi o mezze misure». Poi ha precisato, con un tono appena minaccioso: «Voglio un governo che rispetti i suoi impegni, che rispetti la proprietà privata e il libero scambio. Basta con il modello delle caste. Sappiamo che ci sono persone che resisteranno, ci sono persone che vogliono mantenere questo sistema di privilegi per pochi, mentre impoverisce la maggioranza degli argentini. A tutti loro voglio dire che dentro la legge si può tutto, fuori dalla legge niente. Saremo implacabili con coloro che vogliono usare la forza per difendere i loro privilegi». Per poi concludere, più esplicito, probabilmente riferendosi a eventuali manifestazioni di protesta: «Quando c’è un crimine dev’essere soppresso».
Musica per le orecchie dei suoi più illustri estimatori, a partire da Jair Bolsonaro, l’ex presidente del Brasile a cui è stato spesso accostato per “vicinanza politica” e che aveva sostenuto la sua campagna elettorale. «La speranza è di nuovo scintillante in Sud America», ha scritto Bolsonaro su X (l’ex Twitter), definendo quella di Milei «una vittoria dell’onestà, del progresso, della libertà». Parole simili a quelle scelte da Elon Musk (proprietario di X), che ha postato: «La prosperità è in vista per l’Argentina». Anche il suo mentore, l’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump, ha pubblicamente esultato: «Il mondo intero stava guardando! Sono molto orgoglioso di te. Trasformerai il tuo paese e renderai davvero l’Argentina di nuovo grande». Poi Santiago Abascal, leader di Vox (estrema destra spagnola) che ha scritto, sempre su X: «Oggi si apre un cammino di futuro e di speranza per gli argentini e per tutta l’America Latina». Assai più tiepido, e prudente, il messaggio di Lula, presidente del Brasile, spesso indicato da Milei come un “comunista corrotto”: «La democrazia è la voce del popolo e deve essere sempre rispettata», ha scritto Lula, senza mai menzionare Milei. «Auguro al prossimo governo buona fortuna e successo. L’Argentina è un grande paese e merita il nostro completo rispetto».
Il neo eletto presidente dell'Argentina Javier Milei. Foto: Reuters
I mercati esultano, ma la strada resta quasi proibitiva
Elezioni dunque in archivio. E ora l’Argentina deve guardare al domani, a quei conti che non tornano mai, a quell’inflazione a tre cifre, a quel debito fuori controllo che comunque dev’essere rimborsato al FMI, altrimenti sarà l’ennesima bancarotta. Il primo segnale dei mercati, tanto corteggiati e idealizzati dal neo presidente, è stato più che positivo, con eccezionali rialzi per le società argentine quotate all’estero (le azioni della compagnia energetica statale YPF hanno fatto registrare a Wall Street un +42%). Eppure la strada per Milei appare comunque in ripida salita, visti i numeri assai esigui dei seggi parlamentari conquistati dal suo partito: 38 su 257 alla Camera, appena 8 su 72 al Senato. Come dire: non potrà continuare a “sparare” sulla classe politica argentina se vuole avere qualche minima chance di cambiare le cose. Dovrà cercare alleanze, dovrà scendere a patti, dovrà concedere, dovrà smussare molte delle sue “certezze” espresse in campagna elettorale. Anche la politica estera appare piena d’incertezze. Il presidente argentino ha già detto che vorrebbe visitare immediatamente, ancor prima del suo insediamento, Stati Uniti e Israele facendo intendere di voler stringere patti d’acciaio. Mentre le relazioni con Cina e Brasile potrebbero essere davvero appese a un filo. E il prossimo gennaio l’Argentina dovrebbe entrare a far parte dei Brics, il blocco di economie emergenti, “rivali” degli Stati Uniti (l’acronimo viene dalle iniziali di Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica), che puntano a governare l’economia mondiale entro il 2050 andando esattamente nella direzione opposta rispetto a quella prospettata da Milei: sottrarre al dollaro Usa la centralità negli scambi commerciali internazionali. Cosa farà a questo punto l’Argentina? Un passo indietro? A quale prezzo? Intanto il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ha dichiarato di essere «in attesa che vengano chiarite numerose questioni riguardanti i legami bilaterali».
Strettoie difficili da affrontare, soprattutto per un leader senza alcuna esperienza politica alle spalle e che certo non sembra spiccare per doti diplomatiche. Difficoltà evidenziate anche in un editoriale pubblicato su La Nacion, storico quotidiano argentino: «Milei, a differenza degli ex presidenti di Brasile e Stati Uniti, non avrà una maggioranza per governare. Trump ha iniziato il suo mandato con una maggioranza alla Camera e al Senato. Bolsonaro ha ottenuto il sostegno del Centrão (partiti politici, tendenzialmente di centro-destra, che stringono accordi in base alle loro convenienze), oltre ad avere una forte base tra gli evangelici, i militari e l’agrobusiness. La coalizione di Milei sarà in minoranza e, anche con l’appoggio di una parte della destra tradizionale, non avrà la maggioranza al Congresso. E nel sistema argentino è praticamente impossibile governare senza una maggioranza nella legislatura. Milei erediterà un’economia con un’inflazione galoppante. Ha intenzione di dollarizzare il paese, ma deve affrontare enormi difficoltà, perché non ha alcun sostegno politico. E, cosa ancor più importante, perché l’Argentina non ha dollari da dollarizzare. Come se non bastasse, il futuro presidente ha maledetto il popolare Papa Francesco, che è argentino». Quindi resta la domanda: chi sosterrà quel “pazzo” di Milei? Chi voterà le sue riforme? Chi asseconderà i suoi furori contro lo “stato sociale”? Chi gli darà la benzina per mettere in moto la sua motosega?