SCIENZA E RICERCA

Donne e scienza: riscoprirne il ruolo per riscrivere la storia

Il quartier generale di Washington D.C. intitolato a Mary W. Jackson, ingegnera afroamericana che, con Katherine Johnson e Dorothy Johnson Vaughan, ebbe un ruolo significativo per la riuscita del primo allunaggio. È quanto ha deciso la Nasa, tributando il dovuto riconoscimento a una scienziata rimasta, con altre, per lungo tempo nell’ombra. “La storia della scienza non è riuscita a riconoscere i risultati raggiunti dalle donne – si legge in un editoriale su Nature –, in particolare quelle delle comunità emarginate. Il loro lavoro è stato a lungo oscurato, talvolta persino eliminato dalla cronaca, ma ora sono in corso iniziative per correggere questa tendenza”.

In anni recenti si sta assistendo a una fioritura degli studi di genere che muovono proprio in questa direzione. Marta Cavazza, solo per citare alcuni tra i lavori in lingua italiana, ha recentemente pubblicato un volume dal titolo Laura Bassi. Donne, genere e scienza nell’Italia del Settecento (Editrice Bibliografica 2020), dedicato a una donna che ebbe un ruolo ormai riconosciuto nella diffusione del newtonianismo in Italia e che nel 1732 ottenne dal senato bolognese la cattedra di “philosophia universa”. Una lettura onoraria (ma stipendiata), questa, dato che – “causa sexus” – non le era permesso tenere normali lezioni pubbliche nell’archiginnasio. Massimo Mazzotti si è occupato, invece, di Maria Gaetana Agnesi e il suo mondo (Carrocci editore 2020), matematica e filantropa milanese, mentre Federica Favino ha scritto di Donne e scienza nella Roma dell’Ottocento (Viella 2020), concentrandosi in particolare sulla botanica Elisabetta Fiorini Mazzanti e sull’astronoma Caterina Scarpellini vissute a cavallo tra Otto e Novecento.

Ancora, Pietro Greco, caporedattore de Il Bo Live fino alla sua scomparsa nel 2020, dedica uno dei suoi ultimi lavori a Trotula. La prima donna medico (L’Asino d’oro edizioni 2020): c’è un lungo dibattito storiografico sulla reale esistenza di una ginecologa di nome Trotula, ma Pietro Greco non ha dubbi: “Trotula esiste ed è medico”. E ancora: “I documenti ci dicono che Trotula è una figura del tutto preminente dell’istituzione medica salernitana. Tant’è che i suoi commenti e le sue lezioni sono inseriti con il suo nome nel De agritudinum curatione, la raccolta degli insegnamenti dei sette grandi maestri della Scuola. Da tutto ciò risulta evidente che Trotula è un personaggio di grandissimo rilievo, ma non è un genio isolato”.

La biografia fa parte, insieme ad altre, della collana Profilo di donna dedicata a figure, più o meno note, che hanno saputo distinguersi nei loro ambiti professionali. Pietro Greco curava la serie dedicata alla scienza e, oltre a scrivere un volume su Trotula, da prolifico scrittore qual era, ne compose anche altri su scienziate vissute in tempi più recenti: narrò le vicende dell’astrofisica Margherita Hack e raccontò di Lise Meitner, fisica austriaca vissuta a cavallo tra Otto e Novecento, che ebbe un ruolo significativo nella scoperta della fissione nucleare. Nella stessa collana, tra le scienziate, sono già stati pubblicati anche i profili di Rita Levi-Montalcini, di Milla Baldo Ceolin e di Emma Castelnuovo, matematica italiana che rivoluzionò il modo di insegnare la materia.

È, questa, una veloce carrellata di alcuni dei lavori pubblicati in anni recenti da cui affiora, accanto alla volontà di indagare profili noti, anche l’intenzione di restituire il giusto merito a figure meno conosciute. Sta emergendo una nuova generazione di storici della scienza che hanno preso coscienza e descritto le radici di alcuni problemi, orientandosi verso una storia della scienza più inclusiva e globale. Come nella maggior parte degli ambiti, a occuparsi della materia e a scriverne sono stati in larga parte gli uomini, spesso provenienti da istituzioni di Paesi ad alto reddito. Sebbene in realtà non siano mancate le donne che, in varie forme, hanno dato il proprio contributo. La narrazione storica è stata per molto tempo maschile. E la storia della scienza dominata dalla figura del “grande scienziato eroe”, un uomo che compie scoperte lavorando da solo dietro la spinta di qualche intuizione geniale.

Guardare alle donne, invece, serve a rileggere il modo di fare storia della scienza – sottolinea Elena Canadelli, presidente della Società italiana di storia della scienza e professoressa di storia della scienza e della tecnica all’università di Padova –. Per lungo tempo la storia della scienza è stata la storia di grandi teorie, grandi personaggi, grandi affreschi, e fino al Novecento questi sono stati tutti uomini, perché erano loro ad avere accesso alle società scientifiche e accademiche, alle università, all’insegnamento, ai ruoli ufficiali. Tranne rare eccezioni, le donne non assumevano questi ruoli ufficiali ed è stato il motivo per cui cui sono state escluse da un certo tipo di storia della scienza: erano figure quasi invisibili, che tuttavia ci sono sempre state. Erano presenze quasi anonime, persone che magari registravano dati, facevano osservazioni in campo astronomico, oppure erano tecniche, disegnatrici o illustratrici, figure che contribuivano all’impresa scientifica, senza tuttavia avere ruoli di primo piano o ufficiali. Andare a cercare queste figure, sullo sfondo, consente di avere un’immagine diversa di come funziona la scienza e di come si deve fare storia della scienza”.

Per secoli alle donne è stato precluso l’accesso alle università e alle società scientifiche: in Italia, si dovrà attendere la seconda metà dell’Ottocento, con il regolamento Bonghi del 1875, perché le donne potessero essere ammesse nelle accademie alle stesse condizioni degli uomini. Fino a quel momento potevano farlo solo in alcune sedi, e sempre a discrezione dell’ateneo, come nel caso di Cristina Roccati, fisica rodigina, che nel 1747 viene ammessa tra gli scolari artisti dell’università di Bologna. “Come docenti poi – continua Canadelli – le donne entrano molto tardi negli atenei; anche come tecniche di laboratorio, come libere docenti o assistenti non pagate cominciano a comparire dagli anni della prima guerra mondiale a Padova, già prima in alcune città universitarie come Torino, ma comunque solo sul finire dell’Ottocento”. Le donne iniziano a muoversi in maniera “ufficiale” in ambito scientifico (ma non solo) a partire dalla seconda metà del Novecento, ragion per cui serve un approccio storiografico che non guardi solo alle figure di eccezionale caratura, ma anche a quante hanno dato il proprio contributo in maniera meno eclatante e meno immediatamente tracciabile.  

Sulle donne hanno pesato per lungo tempo i pregiudizi. È stata la scienza stessa – con teorie che poi sono state screditate – a sostenere che esistessero differenze innate nell'intelligenza tra i sessi che avrebbero limitato l'idoneità delle donne alla scienza. Nel Cinquecento Giacomo Menochio, giurista incaricato di prendere le parti di Camilla Erculiani, intraprendente filosofa e speziala in vago odore di eresia per le sue Lettere di philosophia naturale, aveva deciso di adottare una linea di difesa che faceva sostanzialmente appello all’ignoranza femminile.  

Per negoziare una via verso la scienza, all’inizio dell’Ottocento le donne si muovono dunque entro spazi considerati “femminili”, dedicandosi alla traduzione o all’illustrazione scientifica – parte integrante della ricerca naturalistica – o, ancora, alla scrittura di testi educativi, divulgativi rivolti soprattutto ai ragazzi e al largo pubblico. Michael Faraday, per esempio, ammette l’influenza esercitata su di lui dal volume di Jane Marcet Conversation on Chemistry che lo ispirò a dedicarsi alla scienza. Anche quando avevano una formazione universitaria, le donne tendevano ad assumere ruoli di routine, a lavorare come assistenti di ricerca e “calcolatori umani”, come accadeva per esempio all'Osservatorio reale di Greenwich negli anni Novanta dell’Ottocento, all'Imperial College di Londra dalla sua fondazione nel 1907 e all’Harvard College Observatory di Cambridge.

Era tutt’altro che insolito lavorare a fianco di uomini stipendiati e non ricevere alcuna remunerazione. È il caso, per esempio, di Dorothea Minola Alice Bate, paleontologa gallese pioniera dell’archeozoologia, che pur lavorando al Natural History Museum di Londra a partire dal 1898 entra a far parte del personale solo nel 1948, quando aveva circa 60 anni. Spesso le donne operavano a fianco dei loro mariti o di un altro maschio della famiglia ma, anche nel caso della più paritaria delle collaborazioni, la fama andava sempre agli uomini. Come accadde a Margaret Lindsay, astronoma e studiosa di spettroscopia con il marito William Huggins.  

“Ricordare l'ampiezza della partecipazione femminile nel campo delle scienze – sottolinea Claire Jones su Nature – potrebbe contribuire a sanare l'attuale squilibrio di genere ponendo in evidenza che la scienza è, ed è sempre stata, sia per le donne che per gli uomini”.

Per fare questo, però, serve muoversi in un certo modo. Nella storia della scienza, il manoscritto d'archivio è una delle fonti principali su cui si basa la ricerca. Quindi, se gli storici vogliono adottare un approccio più inclusivo, le fonti dovranno essere ampliate, cercando voci che fino a questo momento erano state messe a tacere e riconoscendo contributi finora negati. “Le donne – spiega Canadelli – tradizionalmente custodivano l’archivio, erano la memoria dei mariti, dei figli, degli zii, delle figure maschili. Erano deputate alla conservazione della memoria familiare anche degli scienziati. Quando, però, erano loro stesse a occuparsi di scienza, spesso mancano i loro archivi privati, proprio perché non erano legati alle istituzioni. Fino a un certo punto vengono conservati in ambito familiare, ma non sempre vengono salvati. All’interno delle famiglie, si trovano archivi di figure maschili, ma quelli femminili scompaiono o non sono ritenuti interessanti, al di là delle memorie familiari. Per questo, bisogna andare a cercare nelle corrispondenze che queste donne avevano con altri personaggi, nei taccuini di laboratorio, negli archivi delle istituzioni, nei cataloghi delle collezioni in cui le scritture di mano femminile ci sono: la sfida è partire proprio da quei segni, che spesso vengono trascurati, per riscostruire un’intera storia, per definire il ruolo di queste donne, per capire chi fossero e quale sia stato il loro contributo”.

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