SOCIETÀ

Rwanda, 30 anni dopo il genocidio contro i tutsi

Trent’anni dopo non è ancora finita. L’ultimo ritrovamento risale appena a tre mesi fa: durante alcuni scavi nel distretto di Huye, nel sud del Rwanda, sono emersi i resti di 119 corpi, persone che si ritiene siano state uccise nel corso del genocidio del 1994, quando la furia degli ultranazionalisti Hutu si scatenò contro la minoranza Tutsi (e anche contro i moderati della loro stessa etnia), accusata di aver provocato l’abbattimento dell’aereo su cui viaggiava l’allora presidente rwandese Juvénal Habyarimana, esponente della corrente moderata della maggioranza Hutu. Era il 6 aprile del 1994. Fu l’inizio di uno dei peggiori massacri avvenuti alla fine del ventesimo secolo che ancora oggi viene ricordato non soltanto per l’enorme numero di vittime (diverse fonti le stimano attorno alle 800mila, ma è assai probabile che il numero reale superi il milione: un omicidio ogni 10 secondi) e per l’irrefrenabile dimostrazione di ferocia interetnica, ma come uno dei più clamorosi fallimenti imputabili alle organizzazioni internazionali, a partire dalle Nazioni Unite, che nulla videro e nulla fecero (se non quando era ormai troppo tardi) per impedire lo sterminio. «Il genocidio contro i Tutsi in Rwanda 30 anni fa è una macchia sulla nostra coscienza collettiva e un brutale promemoria dell’eredità del colonialismo e delle conseguenze dell’incitamento all’odio», ha dichiarato pochi giorni fa il segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, durante la recente commemorazione, tenuta al Palazzo di vetro, a Manhattan, in ricordo delle vittime e in onore dei sopravvissuti. Appena un’ora dopo l’abbattimento dell’aereo presidenziale, che fu colpito da un missile terra-aria mentre stava atterrando a Kigali, e a bordo si trovava anche il presidente del Burundi, Cyprian Ntayamira, bande di esagitati estremisti Hutu, sostenuti dall’esercito e dalla polizia, scatenarono una caccia all’uomo senza precedenti. Soprattutto gli Interahamwe, l’ala giovanile degli estremisti Hutu, e la milizia Impuzamugambi, approfittarono con una rapidità quantomeno sospetta di quel pretesto (ancora oggi non c’è alcuna certezza sulla “firma” di quell’atto terroristico) e soffiarono sul fuoco dell’odio interetnico attraverso appelli via radio, con il passaparola, con le minacce, per incitare allo sterminio incondizionato dei Tutsi rwandesi. L’ordine era chiaro: armarsi, scendere in strada e uccidere chiunque, perfino i propri vicini. Per impedire ai Tutsi di fuggire, sia dalle città sia dai più piccoli villaggi, le forze paramilitari istituirono posti di blocco in tutto il paese: le esecuzioni furono sommarie, spietate. I primi a cadere furono i leader politici e amministrativi. Gran parte delle vittime comuni, tra le quali molti bambini, furono uccise in strada dagli squadroni della morte, a colpi di machete o di bastoni chiodati. Tutti coloro che cercarono rifugio in luoghi considerati sicuri, come chiese o edifici governativi o scuole, furono sterminati con raffiche di mitra o lancio di esplosivi. Si ritiene che un numero enorme di donne (tra le 250mila e il mezzo milione) furono sistematicamente sottoposte a indicibili violenzeprima di essere assassinate. Il Tribunale penale internazionale per il Ruanda (ICTR) ha stabilito, nel 2016, che “lo stupro e la violenza sessuale costituiscono genocidio allo stesso modo di qualsiasi altro atto, purché siano stati commessi con l’intento specifico di distruggere, in tutto o in parte, un particolare gruppo, preso di mira come tale”.

Gli appelli ignorati dalle Nazioni Unite

Eppure era chiaro che la situazione stava per degenerare, e diversi segnali d’allarme erano stati lanciati, ancor prima dell’attentato all’aereo presidenziale. Soprattutto dal generale canadese Romeo Dallaire, che in quel periodo era a capo di una forza di pace delle Nazioni Unite presente in Rwanda: poco più di 2500 uomini con equipaggiamento non sempre adeguato (gli uomini migliori venivano dal Belgio, nazione che aveva governato il Rwanda fino al 1962, anno della sua indipendenza) e senza una specifica formazione militare. Il generale aveva compreso perfettamente che qualcosa di grave stava per succedere. Indagando su una serie di omicidi spietati ai danni di civili, alcuni informatori avvisarono lo staff di Dallaire che ufficiali dell'esercito ruandese erano stati incaricati di addestrare le unità suprematiste Hutu e di redigere liste degli abitanti Tutsi nelle loro aree. Il generale suggerì a quel punto di perquisire e sequestrare questi depositi di armi, ma il rappresentante speciale del Segretario delle Nazioni Unite, Jacques-Roger Booh Booh, camerunense, negò il permesso di procedere. Il comandante Dellaire inviò un fax urgente al quartier generale delle Nazioni Unite a New York, informandoli che credeva che il genocidio fosse ormai imminente. Ma anche questo avviso fu ignorato. Poi l’attentato all’aereo presidenziale, e la guerra civile dilagò, velocissima. Il terrore contagiò anche le nazioni che contribuivano con le proprie truppe al contingente di pace, soprattutto dopo che furono trovati morti 10 paracadutisti belgi, che erano stati inviati a rinforzare la guardia della prima ministra Agathe Uwilingiyimana, etnia Hutu, ma della fazione moderata, anche lei assassinata proprio il 7 aprile. Il Belgio ritirò immediatamente i suoi militari. Eppure le Nazioni Unite rifiutarono ancora a Dallaire l’autorità di intervenire con la forza, con Stati Uniti e Regno Unito che si distinsero nel porre un veto ostinato a qualsiasi richiesta di rinforzi, anzi consigliandogli di lasciare il paese. Soltanto il 16 maggio l’Onu decise di rispondere ai continui appelli delle organizzazioni umanitarie (tra le quali Human Rights Watch) e di istituire un contingente di 5.500 soldati, com mezzi corazzati e rifornimenti, con il compito di riportare la pace, ma ci vollero mesi per formarlo e inviarlo in Rwanda. Quando arrivarono il genocidio era già terminato da mesi, grazie all’intervento del Fronte Patriottico Ruandese (RPF), un movimento ribelle guidato dai Tutsi che riuscì a conquistare la capitale Kigali e a rovesciare il “governo autoproclamato” degli estremisti Hutu. Il massacro, almeno nella sua fase più acuta, durò circa 100 giorni, dal 7 aprile alla metà di luglio del 1994. Nel 2004, in occasione del primo decennale del massacro, l’allora Segretario Generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan, riconobbe le responsabilità con parole nette: «Il genocidio in Rwanda non sarebbe mai dovuto accadere. Ma invece accadde. Se la comunità internazionale avesse agito prontamente e con determinazione, avrebbe potuto fermare la maggior parte delle uccisioni. Ma la volontà politica non c'era, e nemmeno le truppe. Se le Nazioni Unite, i funzionari governativi, i media internazionali e altri osservatori avessero prestato maggiore attenzione ai segni del disastro e avessero agito tempestivamente, si sarebbe potuto evitare. Ma gli avvertimenti sono stati ignorati. Nessuno di noi deve avere il permesso di dimenticare». Il presidente francese Emmanuel Macron ha ammesso, pochi giorni fa, che «la Francia e i suoi alleati avrebbero potuto fermare il genocidio, ma non hanno avuto la volontà di farlo». Nel 1994 la Francia era il più stretto alleato europeo del Rwanda.

L’era Kagame e il rancore non ancora del tutto sopito

Oggi, trent’anni dopo, quella ferita è ancora aperta. E non soltanto perché il terreno agricolo del distretto di Huye continua a restituire resti delle vittime di quell’atroce massacro (peraltro senza alcuna certezza che quei crimini siano avvenuti proprio in quei cento giorni, o magari durante una successiva coda di violenze). Ma perché il percorso intrapreso dall’attuale presidente Paul Kagame, che era a capo del gruppo ribelle che all’epoca spazzò via gli estremisti Hutu, che dal 2000 è Presidente del Rwanda (nel 2017 ha vinto il suo settimo mandato con oltre il 98% dei voti, una percentuale “sospetta”) e che potrebbe restare in carica fino al 2034 grazie alle modifiche imposte alla Costituzione, resta pieno di ostacoli sull’indispensabile via della riconciliazione. Un conflitto, quello tra Tutsi e Hutu, che all’origine non ha mai avuto motivazioni religiose o di lingua, ma soltanto una marcata differenza di classe sociale. Prevalentemente agricoltori, e dunque di rango più modesto, gli Hutu: bassi di statura, e di carnagione più scura. Mentre i Tutsi, un gruppo etnico “aristocratico” dell’Africa centro-orientale, fisico slanciato e carnagione più chiara (i Watussi della famosa canzone di Edoardo Vianello, i meno giovani la ricorderanno), erano dediti all’allevamento di bestiame, dunque percepiti come più ricchi e benestanti. Molti ritengono che un ruolo importante nel conflitto interetnico lo svolsero anche i colonizzatori belgi che, nel 1925, misero proprio i Tutsi a capo del governo di quell’area chiamata Ruanda-Urundi (dall’indipendenza concessa nel 1962 nacquero poi due stati distinti, il Rwanda e il Burundi). Lo sfruttamento dei Tutsi nei confronti degli Hutu provocò un rancore profondoche portò, grazie soprattutto alla follia dei suprematisti Hutu, al massacro del 1994. E sotto la cenere covano ancora scintille di quel risentimento: c’è ancora un gruppo residuo di ribelli rwandesi, eredi della milizia Interahamwe, oggi appartenenti alle Forze Democratiche per la liberazione del Rwanda (Fdlr), che opera in Congo e si propone di rovesciare l’attuale governo rwandese.

L’interminabile caccia ai responsabili dei massacri

Voltar pagina non è stato dunque semplice, come ricorda ogni anno Francoise Kankindi, la presidente dell’associazione Bene Rwanda Onlus: «Come può un popolo riprendersi da una tragedia indicibile, in cui i vicini hanno trucidato i loro amici di sempre? Lo si può fare soltanto ripercorrendo con coraggio le ragioni profonde che hanno causato tanto odio». E perseguendo i colpevoli: chi ha fomentato, chi ha stuprato, torturato, ucciso. Come ha scritto pochi giorni fa Amnesty International lanciando l’ennesimo appello alla comunità internazionale affinché siano accertate le esatte responsabilità e garantita giustizia per le vittime e i sopravvissuti: «Giustizia ritardata è giustizia negata», ha dichiarato Tigere Chagutah, direttrice regionale di Amnesty International per l’Africa orientale e meridionale. «La morte accertata di molti dei sospettati di genocidio prima che potessero affrontare la giustizia dimostrano l’importanza di mantenere lo slancio per garantire giustizia ai sopravvissuti e ai parenti delle vittime in Rwanda». Tra maggio 2020 e novembre 2023, il Fugitive Tracking Team dell’International Residual Mechanism for Criminal Tribunals (IRMCT) ha accertato la morte di quattro dei latitanti più ricercati. I resti di Augustin Bizimana, ministro della Difesa durante il genocidio, sono stati identificati nella Repubblica del Congo nel 2020. Due anni fa l’IRMCT aveva poi confermato che uno dei più feroci ricercati, Protais Mpiranya, comandante della Guardia Presidenziale all’epoca dei fatti, era morto nel 2006 ad Harare, in Zimbabwe (per tubercolosi) e seppellito sotto il falso nome di Sambao Ndume. Nei suoi confronti erano stati avanzati diversi capi d’accusa: genocidio, omicidio, stupro, e per “aver istruito, supervisionato, incoraggiato e assistito i crimini” commessi dalla guardia presidenziale. Secondo gli investigatori fu lui, tra l’altro, a ordinare l’omicidio di alti dirigenti moderati Hutu del governo rwandese, tra cui il primo ministro Agathe Uwilingiyimana, il presidente della Corte costituzionale, il ministro dell’Agricoltura e il ministro dell’Informazione, nonché dei dieci caschi blu belgi delle Nazioni Unite. Dopo i cento giorni del massacro era scappato in Camerun. Molti altri militanti Hutu, che parteciparono al genocidio, fuggirono invece in Congo (e su quel confine si sono innescati in questi ultimi trent’anni conflitti tuttora in corso).

Il controverso accordo con Londra

Il partito di Kagame, il Rwandan Patriotic Front, che governa il paese africano dal 1994, ha tentato in ogni modo di colmare le divisioni etniche, anche se i più critici lo accusano di aver usato metodi eccessivamente autoritari, schiacciando qualsiasi forma di dissenso. Le carte d’identità ruandesi non identificano più, come avveniva in passato, una persona in base all’etnia. La nuova costituzione garantisce uguali diritti a tutti i ruandesi, indipendentemente dal loro gruppo. «Il genocidio è populismo nella sua forma pura», ha sostenuto Kagame in una cerimonia a Kigali, lo scorso 7 aprile. «Poiché le cause sono politiche, anche i rimedi devono esserlo. Per questo motivo la nostra politica non è organizzata sulla base dell’etnia o della religione e non lo sarà mai più». Sotto la sua guida il paese, 14 milioni di abitanti, ha comunque ritrovato una discreta stabilità. Anche l’economia è in salute, con la Banca Mondiale che stima per il 2024 una crescita del 7,2% del Pil. Controverso invece l’accordo firmato con il governo conservatore britannico, che vorrebbe inviare a Kigali (in cambio di 540 milioni di sterline, pari a circa 625 milioni di euro) tutti i migranti irregolari, compresi rifugiati e richiedenti asilo, che arrivano sul suolo del Regno Unito. Con il premier inglese Rishi Sunak che sta disperatamente tentando di portare avanti il suo piano («i primi voli partiranno tra 10-12 settimane», ha appena promesso), senza tener conto delle forti opposizioni interne e soprattutto della sentenza della Corte Suprema del Regno Unito del 2023, che ha giudicato “illegale” il piano. Ma l’asse Londra-Kigali sembra, al momento, resistere: il presidente Kagame lo scorso 9 aprile è volato a Londra per assistere a una partita di calcio dell’Arsenal, che come sponsor, sulle maniche della maglia, porta anche il logo “Visit Rwanda” come partner turistico ufficiale.

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