UNIVERSITÀ E SCUOLA
Angelo Ventura, uno storico contro il terrorismo
È appena uscito per i tipi della Fondazione Corriere della Sera il volume "Uno storico contro il terrorismo. Angelo Ventura e il 'Corriere' 1979-1991", che raccoglie gli articoli pubblicati sul quotidiano milanese dallo storico padovano, scomparso nel 2016. Pubblichiamo qui un estratto del saggio introduttivo del curatore Carlo Fumian.
A un resoconto delle ricerche storiche di Angelo Ventura non può mancare una pagina essenziale: gli studi sul terrorismo italiano. Essenziale ed eccezionale sul piano non solo scientifico-metodologico ma anche etico-politico.
La chiave metodologica la offre indirettamente lo stesso Ventura in uno dei suoi ultimi contributi, una riflessione del 2008 ancora inedita, dedicata al tema del Revisionismoe probabilmente destinata alla “Rivista storica italiana”. Dopo aver citato le considerazioni con cui Marc Bloch in Apologia della storia o mestiere di storico sottolinea l’importanza dell’“esperienza vissuta”, che consente all’osservatore (maxime, allo studiosocontemporaneista)di percepire “quel fremito di vita umana, che solo un duro sforzo di immaginazione riuscirà a restituire ai vecchi documenti”, scrive:
“Gli storici delle generazioni future potranno ricostruire i fatti con maggiore sicurezza e precisione, alla luce dei documenti d’archivio resi accessibili, di carteggi privati e di nuove fonti memorialistiche e diaristiche; ed elevarsi ad una visione più meditata e comprensiva, guardando ad un’epoca ormai passata da una diversa e più ampia prospettiva di lungo periodo, creata dai successivi svolgimenti del processo storico. Si pensi all’esito brutalmente tragico e catastrofico del fascismo, e al crollo del comunismo, che nel secolo scorso parevano annunziare l’avvento di una nuova era di tirannidi totalitarie sulle ceneri della civiltà occidentale. Ma restituire alla conoscenza storica il clima etico-politico e culturale, penetrare nella mentalità e nelle sensazioni degli uomini vissuti in un’altra epoca, è più duro e incerto mestiere, fonte di equivoci e incomprensioni, di giudizi anacronistici e di facili arroganti moralismi, indotti anche, per converso, da nuovi e persistenti pregiudizi ideologici e da finalità pratico-politiche incompatibili con lo sforzo di comprensione e di obiettività – nel senso weberiano di probità intellettuale – proprio della ricerca storica”.
Un simile sforzo di comprensione e di weberiana obiettività Ventura lo pratica nel turbine degli anni settanta, quando si divide tra l’insegnamento di storia moderna presso la Facoltà di Scienze politiche, e quello di storia contemporanea presso la Facoltà di Lettere dell’Università di Padova. È la Padova di Franco Freda, dove si inaugura la cosiddetta “strategia della tensione” con gli attentati della primavera-estate del 1969, il primo dei quali distrugge il 15 aprile con una bomba incendiaria lo studio del rettore Enrico Opocher nell’Istituto di Filosofia del diritto. L’esplosione precede di pochi giorni una decisiva riunione, svoltasi sempre a Padova, in cui Freda e altri “due misteriosi personaggi venuti espressamente da Roma, uno dei quali individuato come agente del sid” – scriverà lo stesso Ventura – ordiranno lo scatenamento dell’offensiva terroristica che culminerà il 12 dicembre nella strage di Piazza Fontana a Milano. È la Padova dove si consumano i primi omicidi delle Brigate rosse, nella sede del Movimento sociale italiano, il 17 giugno 1974 in danno di Graziano Giralucci e Giuseppe Mazzola. E naturalmente è la città di Antonio Negri, che proprio a Scienze politiche insegna Dottrina dello Stato e trasforma la facoltà in una base operativa di Potere operaio prima e di Autonomia operaia organizzata poi, una delle “basi rosse” – definite “basi di appoggio politico-militare dentro il sociale” – del Partito armato, in primis dei Collettivi politici veneti, da cui si dipana una incredibile sequenza, lunga almeno un decennio, di intimidazioni, violenze, assalti squadristici, attentati, “notti dei fuochi”, guerriglie urbane, saccheggi, espropri, pestaggi. Nel 1989 Virginio Rognoni, subentrato nel 1978 al ministero degli Interni, ricordava nella sua Intervista sul terrorismo che “i tre cerchi della sovversione, in obiettiva progressione tra loro, erano ben noti: l’area dell’Autonomia, le bande clandestine, il partito armato […]. Bastava andare a Padova per rendersi conto che i muri della città universitaria erano diventati l’agghiacciante albo pretorio degli autonomi […]. La nostra più viva preoccupazione, in quel momento [1978-79], era Padova oltre che Roma. Roma per gli atti terroristici, Padova come centrale e luogo di magistero della violenza”.
Ma su tutto ciò la letteratura è ormai molto vasta. Ad essa si aggiungono efficaci testimonianze diaristiche, come quella offerta da I giorni dell’ombra di Guido Petter, anch’egli tra i bersagli del terrorismo padovano. Del resto, anche una semplice cronaca dei fatti di violenza terroristica a Padova e nel Veneto tra il 1977 e il 1979 occuperebbe decine di pagine, se consideriamo che solo in quel breve lasso di tempo si registrarono 447 attentati a cose, 132 aggressioni a persone, 129 tra rapine, espropri e devastazioni. Le intimidazioni erano quotidiane, spesso avvolte da una coltre di impressionante indifferenza venata di paura, che favoriva l’impunità dei violenti. Chi si opponeva, all’interno dell’Università, era sottoposto ad aggressioni e violenti pestaggi, devastazioni degli studi, interruzioni delle lezioni, minacce e sequestri. Sui muri campeggiavano scritte quali “Ventura attento, ti faremo fuori”, “Sparare ai docenti è un nostro diritto”, “Guido Rossa = Guido Petter”.
Né le minacce erano a vuoto. Come è ben noto, l’attentato ad Angelo Ventura puntualmente arrivò il 26 settembre 1979: un tentativo di omicidio ridottosi ad una “gambizzazione” non grave grazie solo alla reazione – unica nella storia del terrorismo italiano – del docente padovano, che rispose al fuoco.
Anche le reazioni all’attentato rappresentarono una lezione. Alla sincera solidarietà senza riserve di molti – da Leo Valiani a Franco Venturi a Pietro Nenni – corrisposero la freddezza e i distinguo, il fastidio quasi, di qualche collega: fu per lui una conferma della pervasività di quel settarismo ideologico che imprigionava una parte dell’intellighenzia e continuava ad alimentare il “concorso esterno” al terrorismo, e in fondo a legittimarlo. A conferma della centralità dell’idea del “presente come storia”, non formula ma etico sentire, merita di essere citata una lettera inviata dallo storico padovano a Franco Venturi, grande studioso dell’Illuminismo, poco dopo l’attentato, il 15 dicembre: “Caro Venturi, grazie di cuore del terzo volume del tuo Settecento riformatore e dell’affettuosa dedica. Non so dirti la mia quasi sgomenta ammirazione per questo grande e suggestivo monumento che vai erigendo al secolo dei lumi. Ho letto qualche pagina di questo volume. Pensavo di distendermi rifugiandomi un po’ nel terso cielo della ragione, ma ci ho trovato i soliti nembi tempestosi e il dramma del riformismo. Ma almeno nel Settecento si guardava a un mondo nuovo da costruire e non era ancora nato il nichilismo”.
Angelo Ventura sarà tra i pochi che non si piegarono al ricatto della violenza. Ma soprattutto, lungo tutti gli anni settanta, Ventura “studiò” il presente, ben conscio del ruolo cruciale svolto dagli intellettuali nelle “rivoluzioni”. I suoi studi sul terrorismo, scritti tra il 1980 e il 1984, “rappresentano” egli scrive, introducendone la raccolta nel 2010 in Per una storia del terrorismo italiano, “gli esiti di un’esperienza vissuta personalmente per oltre un decennio di aperto e duro contrasto nei confronti delle trame eversive e del terrorismo”. Ancor oggi essi sono considerati contributi storici imprescindibili alla comprensione del terrorismo di destra e di sinistra, fondati come sono sull’esame di una mole di documenti estremamente vasta, che gli permise di anticipare una “verità storica” del terrorismo italiano incardinata su alcuni punti fondamentali: l’esistenza e l’operatività del “partito armato”; i complessi scenari ideologici, le strategie e le tattiche del progetto neoleninista finalizzato all’insurrezione contro i poteri dello Stato mediante il terrorismo e la lotta armata; il ruolo dei “poteri occulti” nello svolgersi dell’offensiva terrorista sia di destra che di sinistra; l’importanza e la responsabilità degli intellettuali in quel lungo, pericolosissimo assalto congiunto al sistema democratico.
Ma credo che nulla possa restituire lo spirito di quei tempi, oltre che documentare il solitario (e pericoloso) lavoro di scavo di Angelo Ventura, meglio delle tre agende rinvenute tra i libri e le carte che la famiglia ha generosamente donato al Centro di ateneo per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea dell’università di Padova dopo la scomparsa dello storico padovano. Tre agende del 1979, del 1980 e del 1981. Appunti di letture, schemi di fatti e di ragionamenti, elenchi di nomi ed episodi, qualche giudizio affilato, sintesi di colloqui, resoconti di telefonate o di incontri, anche con esponenti politici e giornalisti di primissimo piano, confidenze e opinioni, bozze di articoli: tutto nelle agende parla del suo sforzo di comprendere, collegare, approfondire, ma esse restituiscono anche un clima pressoché inimmaginabile oggi. Ecco una secca nota del 17 gennaio 1981 (dunque, più di un anno dopo l’attentato): “12-12,30. Individuata operazione di pedinamento nei miei confronti”. Annotazioni di estremo interesse, molte delle quali andranno ora decriptate. Non già in ragione della grafia nervosa e contratta, spesso di assai difficile lettura, ma letteralmente: alcuni appunti riguardavano questioni talmente scottanti da consigliare a Ventura di adottare, per i passi più delicati, nientemeno che un codice cifrato.
Angelo Ventura fu colpito non tanto come simbolo politico-ideologico quanto, più concretamente, come uno degli avversari che troppo si stavano avvicinando alla verità, come Carlo Casalegno, Walter Tobagi, Emilio Alessandrini. E quindi, per la sopravvivenza del progetto rivoluzionario, andava eliminato. Del resto, il Fronte comunista combattente – il livello armato e occulto dell’Autonomia veneta – aveva rivendicato l’attentato a Ventura del 26 settembre proprio citando suoi articoli apparsi sull’”Avanti!” e altrove (ad esempio Chi predica, chi spara, chi chiama la violenza, “la Repubblica”, 14 agosto 1979). In essi si documentava la responsabilità di Potere operaio e di Autonomia nella genesi e nello sviluppo del Partito armato, i rapporti tra Autonomia e Br, “la strategia dell’articolazione dialettica tra i diversi livelli, l’intervento di centri internazionali di potere occulto”, come egli stesso scriverà sul giornale socialista (Le intuizioni di Casalegno, “Avanti!”, 29 aprile 1980) a seguito delle rivelazioni di Patrizio Peci, che avevano confermato il dato di fatto che le organizzazioni terroristiche erano nate agli inizi degli anni settanta “in simbiosi con Potere operaio e quindi con Autonomia operaia”.
Nel complesso, l’intera produzione giornalistica di Ventura si pone come ideale premessa e completamento dei suoi saggi scientifici sul terrorismo. Ciò che più contraddistingue e accomuna le molte decine di articoli pubblicati per più di un ventennio è lo sforzo “pedagogico” di spiegare a tutti quali fossero le peculiarità del terrorismo italiano, quali le sue strategie, quali gli attori interni e internazionali, palesi e occulti, quali infine i rischi che la democrazia italiana andava correndo. Ventura era profondamente convinto che la lotta giudiziaria al terrorismo sarebbe stata vana se non si fosse riusciti a spezzare lo schermo di ambigua equidistanza e indifferenza culturale che circondava la violenza politica e le logiche eversive.
Carlo Fumian