SOCIETÀ

La legge italiana sull'Open Access. Uno sguardo dall'interno

L’Italia si è dotata di una legge sull’Open Access (OA). Si tratta di una novità assai rilevante, da accogliere positivamente, benché alcuni problemi siano tutt'ora presenti.

La formulazione finale non è infatti la migliore possibile, anzi. La norma costituisce un’applicazione molto parziale della politica europea in materia di Open Access e mischia elementi (non i migliori) presi dai vari modelli legislativi di riferimento, (soprattutto dal modello spagnolo). Ma il confine della formalizzazione legislativa del principio è oramai varcato ed è possibile solo muoversi oltre: applicando il dettato della legge.

La norma è obbligatoria e programmatica. Obbligatoria (“adottano” significa “devono adottare”) perché vincola, pur nel rispetto dell’autonomia, i “soggetti pubblici preposti all’erogazione o alla gestione dei finanziamenti della ricerca scientifica”. Programmatica perché il vincolo attiene all’attuazione delle “misure necessarie per la promozione dell’accesso aperto”.

Sotto il profilo del campo di applicazione soggettivo la legge si rivolge non solo ai soggetti finanziati ma altresì ai finanziatori. In particolare, il riferimento implicito è al Miur.

Dal punto di vista del campo di applicazione oggettivo la norma riguarda gli “articoli pubblicati su periodici a carattere scientifico che abbiano almeno due uscite annue”. L’espressione “articolo” è da interpretare estensivamente. La preoccupazione del disposto legislativo è evidentemente di tener fuori dal raggio d’azione i libri (in particolare, quelli che hanno finalità didattiche e generano profitti).

Il legislatore italiano sceglie di indicare entrambe le vie, quella aurea (pubblicazione in riviste che nascono ad accesso aperto) e quella verde (ripubblicazione in archivi istituzionali o disciplinari di articoli già editi), per la “realizzazione” dell’accesso aperto.

Il legislatore pensa a promuovere l’accesso aperto senza prevedere nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica. Si tratta di uno dei punti deboli sui quali occorrerà tornare, se ce ne sarà la volontà politica, in senso correttivo.

Nel dettaglio, la regolamentazione della via verde prevede la ripubblicazione dell’articolo senza scopo di lucro su archivi istituzionali o disciplinari.

I termini massimi (18 e 24 mesi) per la ripubblicazione sono frutto evidentemente del lobbying di una parte dell’editoria e si pongono oltre i parametri fissati dalla Raccomandazione Ue (6 e 12 mesi) nonché oltre tutti i limiti temporali rinvenibili nei modelli di riferimento.

Va però rimarcato che si tratta di termini massimi. Stante la natura programmatica della norma, i soggetti destinatari dell’obbligo di adozione delle misure necessarie possono e anzi auspicabilmente devono, per allinearsi alla Raccomandazione UE 2012, porre termini più brevi.

L’attuazione dell’accesso aperto passa attraverso un processo sistemico. Un processo in cui tutti hanno responsabilità: legislatore, governo, soggetti finanziati con fondi pubblici e ricercatori. Senza investimenti economici e organizzativi, senza lo sviluppo di una cultura e di un’etica dell’apertura della conoscenza scientifica (che richiede innanzitutto impegno sul piano della divulgazione e della formazione), e senza regolamentazioni di dettaglio, il cammino dell’accesso aperto rischia di arrestarsi o di rallentare sempre più. 

La responsabilità, però, non sta solo in capo allo Stato e al mondo della ricerca: è anche del mondo dell’editoria. L’OA non è una battaglia contro gli editori, è piuttosto un movimento che mira a innovare e a rendere maggiormente concorrenziale il mercato.

Roberto Caso

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