SOCIETÀ

Bicameralismo perfetto, regola o eccezione?

La riforma costituzionale del Senato sta catalizzando l’attenzione mediatica e politica nazionale. Il ddl Boschi ha messo in secondo piano tutte le altre riforme promesse dal governo Renzi: le unioni civili, la giustizia, le intercettazioni, il fisco. Il presidente del Consiglio sa di giocarsi la permanenza a Palazzo Chigi e ogni suo sforzo è teso ad arrivare a una tempestiva approvazione parlamentare della riforma.

L’ostacolo è rappresentato dal metodo di selezione dei senatori. La cosiddetta minoranza dem (e buona parte delle opposizioni) vuole che sia a elezione diretta, mentre l’attuale disegno di legge, al contestato articolo 2, prevede che i futuri senatori – che saranno consiglieri regionali e sindaci – siano “indicati dai consigli regionali”.

La riforma del Senato prevede che a Palazzo Madama siederanno 100 senatori in luogo dei 315 di oggi. Essi saranno così ripartiti: 74 consiglieri regionali, 21 sindaci e 5 "cittadini che hanno illustrato la patria per i loro altissimi meriti", scelti dal Presidente della Repubblica (e che resteranno in carica solo sette anni e non più “a vita”). I senatori non saranno più eletti direttamente dai cittadini. Si tratterà di una elezione di secondo grado che vedrà appunto approdare in Senato sindaci e consiglieri regionali. Il primo rinnovo del Senato li vedrà "eletti" tutti contemporaneamente, dopodiché la loro elezione sarà legata al rinnovo dei consigli regionali. Il sistema sarà proporzionale per evitare che chi ha la maggioranza in ciascuna regione si accaparri tutti i seggi a disposizione.

Il nuovo Senato non potrà più votare la fiducia al governo e la sua funzione principale sarà quella di “raccordo tra lo Stato e gli altri enti costitutivi della Repubblica" (che poi sarebbero regioni e comuni). Potere di voto lo conserverà solo su riforme e leggi costituzionali, referendum popolari, leggi elettorali degli enti locali, diritto di famiglia, matrimonio e salute e ratifiche dei trattati internazionali.

Il possibile punto di compromesso all’interno del Pd sembrerebbe quello di dare la possibilità agli elettori di sapere prima quali consiglieri regionali, una volta eletti, diventeranno senatori. Incidere quindi sulle leggi elettorali regionali. L’opinione pubblica sembra d’accordo nel mantenere l’elezione diretta dei senatori, pur essendo favorevole al superamento del bicameralismo perfetto. A questo punto è utile capire quale sia la situazione negli altri paesi, perlomeno quelli europei, e quali siano state le fonti d’ispirazione per gli estensori del ddl Boschi.

Appare subito evidente come il bicameralismo perfetto sia quasi un’eccezione nel panorama europeo. Su ventotto Paesi dell'Ue quindici hanno un sistema monocamerale. Tra questi la Grecia appena andata al voto, ma anche la Svezia, la Danimarca, l'Ungheria. Si tratta di paesi storicamente ed economicamente molto diversi l’uno dall’altro, ma generalmente di dimensioni ridotte e che spesso sono giunti a un parlamento unico dopo aver riformato precedenti sistemi a doppia camera di rappresentanza. Dei tredici paesi con sistema bicamerale, otto prevedono l'elezione indiretta di un ramo del Parlamento. Si tratta di Germania, Francia, Gran Bretagna, Irlanda, Belgio, Olanda, Austria e Slovenia. Quattro sono invece i paesi che eleggono direttamente deputati e senatori: Italia, Repubblica Ceca, Polonia, Romania. In Spagna il sistema è misto, dato che 208 senatori sono eletti direttamente mentre i restanti 58 sono nominati dalle comunità autonome.

Al di là dei numeri e delle specificità nazionali, quello che più conta è che non sembra esistere una chiara tendenza comune a livello europeo: il Belgio è passato lo scorso anno da un sistema elettivo diretto a uno indiretto, mentre in Gran Bretagna è stato la coalizione lib-con ad avviare una discussione su una riforma definitiva della House of Lords, nell’intenzione di trasformarla in una upper house elettiva. Anche i previsti equilibri istituzionali interni variano notevolmente da paese a paese: il Bundesrat tedesco è nominato dai governi dei lander, che votano in blocco per linee partitiche, per cui a ogni cambio di maggioranza regionale può corrispondere una significativa variazione a livello nazionale.

Non esiste quindi un modello “vincente” e potrebbe sembrare arduo dimostrare che l’elettività o meno dei senatori possa incidere sul futuro del Paese. Non va però dimenticato il tema della qualità della classe politica italiana, troppo frequentemente associata a episodi di corruzione e malaffare. Sotto questo punto di vista, avvicinare l’eletto all’elettore, aumentando il potere di scelta di quest’ultimo, è certamente auspicabile.

Permangono infine alcune perplessità sul previsto bilanciamento dei poteri nel nuovo assetto istituzionale. Come ha fatto recentemente notare il costituzionalista Alessandro Pace,  pur dovendo rappresentare “i territori”, il nuovo Senato nascerà senza il potere di legiferare su materie relative proprio alle autonomie territoriali, di verificare la corretta attuazione delle leggi statali e regionali concernenti le autonomie e di valutare l’impatto che tali autonomie territoriali subirebbero in conseguenza di decisioni del governo concernenti l’Unione europea. Per contro, il Senato conserverà sia la funzione legislativa ordinaria, sia la funzione di revisione costituzionale, ancorché non sarà elettivo. Questo contrasta con l’articolo 1 della Costituzione che impone che la funzione legislativa debba essere esercitata da rappresentanti del popolo direttamente eletti.

Vi sarebbe poi un problema di “dimensioni”: in un Parlamento costituito da un Senato composto da 100 senatori e da una Camera che continuerebbe a essere composta da 630 deputati, il Senato non svolgerebbe alcun ruolo rilevante nel Parlamento in seduta comune. Per le elezioni del presidente della Repubblica, dei giudici costituzionali e dei componenti laici del Csm il suo ruolo politico effettivo sarebbe notevolmente limitato.

Marco Morini

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