IN ATENEO
Andrea Craighero porta la sua “psicologia delle persone” tra le comunità contadine dell’Albania rurale
Incontriamo Andrea nel cortile della Scuola di Psicologia dell’Università di Padova, in zona Portello, in una soleggiata giornata di settembre. Questa intervista ha dovuto aspettare qualche settimana in più del previsto, perché Andrea fino a pochi giorni fa si trovava in Albania, e non per uno dei suoi classici viaggi in solitaria con lo zaino in spalla.
In Albania Andrea ci è finito grazie a un programma della Conferenza Episcopale Italiana, che ogni anno invia quattro giovani in giro per il mondo, per prendere parte e testimoniare in prima persona alcuni dei tanti progetti di cooperazione e sviluppo finanziati con l’8x1000 alla Chiesa Cattolica.
Andrea, com’è stata l’Albania? E soprattutto, cosa hai fatto e cosa hai visto là?
Sono stato in Albania con la ONG “RTM Volontari”, una realtà italiana attiva nel volontariato internazionale dal 1973 e che collabora con varie istituzioni. Tra queste, la CEI, da cui ha ricevuto un finanziamento grazie alle donazioni dell’8x1000.
A Scutari ho raggiunto il team di 5 persone che lavorano con grande passione a un progetto di sviluppo rurale delle comunità contadine del Nord dell’Albania; il mio compito era di raccontare a chi ci seguiva da casa tutto ciò che vedevo e vivevo con foto, video e interviste.
Nonostante la vicinanza all’Italia e all’Europa, l’Albania rimane un paese estremamente povero e poco sviluppato. Nelle aree rurali del Puke e Fushe Arrez, ho avuto modo toccare con mano le condizioni di vita durissima di contadini e pastori - e delle loro famiglie:condizioni abitative e sanitarie precarie, lunghissime giornate di lavoro massacrante per guadagni irrisori, un’economia di mera sussistenza.
Non è una sorpresa che, negli anni, centinaia di migliaia di albanesi abbiano abbandonato la loro terra alla ricerca di fortuna. Ma è precisamente questo che RTM Albania cerca di combattere, fornendo alle popolazioni locali strumenti per raggiungere l’autonomia economica.
Le attività degli operatori sono moltissime, ma posso citarvi un paio di esempi. Abbiamo aiutato le comunità locali a costruire rifugi abitabili e stalle, per pastori e greggi abituati a passare le nottate all’addiaccio sulle freddissime vette delle Alpi Albanesi. Oltre a migliorare la qualità della vita di questi uomini, abituati alle asprezze della natura ma non per questo immuni alle malattie e alla sofferenza, questi interventi hanno migliorato anche la salute degli ovini. Aumentarne il numero e l’aspettativa di vita è fondamentale, perché la produzione di carne e latticini costituisce spesso l’unica fonte di reddito dei nuclei familiari.
Abbiamo anche donato ai pastori, e insegnato loro a utilizzare, piccoli macchinari per pastorizzare il latte in casa ed eseguire lavorazioni alimentari “sicure”: ciò ha permesso il passaggio da saltuari scambi di prodotti agricoli con i vicini, alla vendita in sicurezza di carne, formaggi e latte nei mercati dei paesi limitrofi.
Il più grande insegnamento che ho raccolto è la differenza tra volontariato e assistenzialismo: ho capito l’importanza di aiutare le popolazioni locali ad acquisire strumenti e competenze per diventare autonome, per potercela fare con le proprie forze, senza dipendere da un aiuto esterno. Nei volontari ho visto il pieno rispetto della cultura locale e dei mezzi di ciascuno, con un’attenzione estrema a non “imporre” forme di pensiero occidentali o legate alla fede cattolica.
In questo approccio di aiuto operoso, ma anche di rispettosa distanza, vedo molti parallelismi con la psicologia…
E arriviamo quindi a te, ai tuoi studi, alla scelta di psicologia e all’esperienza a Padova.
Il mio percorso ha registrato una virata secca già nel passaggio dalla triennale alla magistrale. Nei primi tre anni di università ho studiato e mi sono laureato in Psicologia Sociale e del Lavoro, ma per completare i miei studi ho scelto invece di passare a Psicologia Clinico-Dinamica – mi manca solo la tesi e poi sarò pronto per il tirocinio post-lauream.
La psicologia del lavoro, pur interessante e utilissima, mi ha posto davanti a un dilemma etico personale: davanti all’immenso potenziale di aiuto e sviluppo della persona umana che la psicologia offre, davvero l’uso che voglio farne è la selezione del personale e la gestione della risorsa-lavoratore in azienda? La risposta che mi sono dato è no.
Ambiti della psicologia come il marketing e lo studio del comportamento del consumatore sonoper me una sorta di “lato oscuro” della Forza, per chi ha familiarità con il mondo di Guerre Stellari. Credo molto che la psicologia debba essere delle persone e per le persone.
La riconferma della mia vocazione più prettamente “clinica” viene anche da un’altra importante esperienza di volontariato che porto avanti da alcuni anni con la comunità per la cura delle dipendenze “Nuova Vita”di Vicenza.
Il contatto con una realtà di questo tipo mi ha fatto mettere pesantemente in discussione: ho scoperto di avere la testa piena di stereotipi e di non sapere nulla della sofferenza umana o dei meccanismi alla base dell’abuso di alcune sostanze.
Ho capito che il problema delle dipendenze è ampio, molto più ampio: è di tutta la società. C’è molta ipocrisia: da un lato abbiamo il rigetto totale per chi viene comunemente chiamato “tossicodipendente”, ma dall’altro non ci preoccupiamo per nulla delle moltissime forme di abuso che la nostra società – e le leggi – consentono e tollerano. Parlo ovviamente dell’alcol, del fumo, del gioco d’azzardo, dello shopping compulsivo… ma non solo. Nel tempo mi sono convinto del fatto che l’essere umano sia quasi “portato” a sviluppare forme di dipendenza da oggetti materiali, ma anche, spesso, dipendenze emotive e relazionali. Forme spesso innocue, ma che possono diventare sempre più invalidanti per la persona.
Ai ragazzi della comunità “Nuova Vita” cerco di insegnare il distacco dalle cose materiali e immateriali attraverso la meditazione, il vivere qui e ora, presenti e focalizzati sull’istante presente, lasciando andare ciò che c’è stato prima e ciò che verrà dopo.
Direi che questo pensiero ci avvicina alla tua grande passione, la meditazione. Come ti sei avvicinato e cosa significa per te oggi?
Faccio una premessa: non ho alcun titolo ufficiale per insegnare la meditazione, tutto ciò che so l’ho imparato da me, da autodidatta, leggendo libri e praticando.
In adolescenza ero un teenager arrabbiato col mondo e scontroso, pessimista, sempre pronto al peggio. Poi un giorno, per caso, mi è capitato tra le mani Siddhartha, di Hermann Hesse. Alla prima lettura mi aveva incuriosito, ma non mi aveva detto molto. Quando qualche mese dopo l’ho riletto, è stata una rivelazione che mi ha cambiato profondamente.
Da lì ho intrapreso un percorso personale di ricerca, che mi ha condotto inevitabilmente verso la meditazione, praticata prima sporadicamente, poi con sempre maggior regolarità. Da quattro anni a questa parte medito ogni giorno, una ventina di minuti prima di andare a letto, e posso dire senza alcuna remora che l’impatto sulla mia vita è stato enorme.
Ho imparato a prendere coscienza, con curiosità e senza giudizio, di pensieri, emozioni e vissuti che prima tendevo a ignorare o rigettare; ho imparato a osservare e ammirare la bellezza che mi circonda, e che così spesso ci dimentichiamo esistere, anche nelle piccole cose.
Mi piace ricordare come in alcuni anni particolarmente complessi della mia vita da studente, in Università abbia avuto la fortuna di trovare anche uno spazio di ascolto e di aiuto a cui rivolgermi. Parlo del Servizio SAP – Counseling e Psicoterapia di ateneo, dove ho potuto intraprendere un percorso di sostegno psicologico che mi ha davvero aiutato a ritrovare equilibrio e serenità. Per chi fosse interessato, il servizio è completamente gratuito per gli studenti e posso affermare senza paura che a me ha davvero cambiato la vita.
Grazie al SAP quindi ed all’Università per essere stata luogo non solo di studio e formazione ma anche spazio di ascolto e disponibilità all’aiuto.