SCIENZA E RICERCA

Più plastiche in mare che stelle nel cielo: storia di un disastro annunciato

E mo ? E mo, Moplen!”. Forse qualcuno ricorderà la pubblicità di “Carosello” in cui Gino Bramieri pubblicizzava un rivoluzionario materiale “leggero, economico, resistente” prodotto dall’azienda italiana Montecatini Edison e brevettato col nome commerciale di Moplen©. Erano gli anni ’60 e con quella pubblicità cominciava l’invasione del mercato italiano e mondiale da parte della plastica. E pensare che è stato un chimico italiano, Giulio Natta, a inventare il polimero da cui è stata poi prodotta la plastica. Per questa invenzione Natta ed il tedesco Ziegler hanno preso il Premio Nobel per la chimica nel 1963.

Da allora ad oggi sono stati prodotti più di cento milioni di tonnellate di materie plastiche, la gran parte delle quali sono ancora disperse nell’ambiente praticamente in ogni angolo del pianeta con il destino di finire, prima o poi, in mare. Si stima che più di 80 milioni di tonnellate galleggino negli oceani di tutto il mondo concentrate in 5-6 enormi agglomerati chiamati plastic garbage patch o “isole di plastica”. In ogni oceano, infatti, il gioco delle correnti è tale da raccogliere le plastiche galleggianti in aree grandi fino a due volte la superfice della Francia come nel caso del Great Pacific garbage patch, la più grande isola di plastica del pianeta che si trova tra le coste americane e quelle asiatiche. In effetti non è facile definire con esattezza le dimensioni di questi giganteschi accumuli di spazzatura la cui estensione potrebbe essere sottostimata, tanto che un articolo pubblicato nel marzo 2018 sostiene che l’accumulo di plastica nel Pacific garbage patch sia dalle quattro alle sei volte più veloce di quanto previsto e già oggi la sua estensione sarebbe di 1.6 milioni di Km quadrati, cioè più di tre volte la Francia. E non si tratta di uno strato superficiale ma di un accumulo di detriti fino a 10 metri di profondità.

Nella profetica pubblicità di Bramieri una voce fuori campo diceva della plastica: “Non si rovina, non si consuma e dura… Dura a lungo!”.  Niente di più vero, purtroppo, visto che un sacchetto di plastica rimarrà a galleggiare in mare per almeno 50 anni (se non finisce prima nello stomaco di una tartaruga che spesso lo confonde con una medusa), mentre una bottiglietta di plastica rimarrà a bagno-maria per molte centinaia di anni. Col tempo - a seguito dell’azione meccanica delle onde - i sacchetti, le bottigliette e tutti gli altri oggetti in polipropilene o polietilene si degraderanno in piccoli frammenti generando le così dette micro-platiche. Pezzettini di plastica più piccoli di 5 millimetri che oggi costellano i mari del mondo in numero superiore alle stelle che illuminano la nostra galassia (qualcuno ha fatto i conti). Piccoli, colorati e molto appetitosi come hanno dimostrato vari studi in base ai quali è risultato evidente che molte specie di pesci preferiscono le microplastiche al plancton di cui normalmente si nutrono. La preferenza sembra legata al fatto che questi frammenti di plastica sono quasi sempre ricoperti da piccoli aggregati di alghe e batteri che li rendono preferibili al cibo naturale.

Una volta entrate nella catena alimentare le plastiche finiscono prima o poi anche nei nostri piatti o, per lo meno, nei pesci che mangiamo. Come per esempio nelle sogliole pescate in Adriatico nel cui tratto digerente sono state trovate microplastiche nel 95% degli esemplari analizzati. Ma la situazione non è diversa per il pesce spada, il tonno e la gran parte delle altre specie di interesse commerciale di tutti i mari del mondo. Non mangiamo direttamente le plastiche perché queste rimangono confinate nel tratto gastro-intestinale di pesci, molluschi e crostacei, parti che in genere rimuoviamo prima di metterli in forno. Le plastiche però, una volta ingerite dalle specie più in basso nella catena alimentare (gamberi, acciughe, aringhe) rilasciano le sostanze chimiche con cui sono state trattate contaminando le loro carni. Il tonno mangia l’aringa, noi mangiamo il tonno e il gioco è fatto. È come se noi avessimo mangiato la plastica e le sostanze chimiche con cui viene trattata. Sostanze che in molti casi interferiscono con il nostro sistema endocrino. In effetti, questo meccanismo non è ancora molto studiato ma non è affatto escluso che alla fine qualche effetto sull’uomo possa esserci.

E adesso che ne facciamo delle decine e decine (o centinaia) di milioni di tonnellate di plastica che invadono le spiagge e gli oceani di tutto il mondo? Si possono riciclare, cosa che in parte già facciamo ma solo nei paesi più industrializzati. Il resto del modo semplicemente se ne frega e butta via. Qualche azienda sta provando a riutilizzare proprio la plastica alla deriva negli oceani per realizzare filati di poliestere con cui produrre scarpe, magliette ma anche moquette. Queste aziende stanno investendo molto in ricerca e innovazione tecnologia perché il processo di riutilizzo di quel tipo di plastica (cioè quella prodotta fino a ieri senza nessuna attenzione all’ambiente) è laborioso. Certamente può essere una soluzione nel momento in cui il processo diventa economicamente redditizio. Non tutto dipende però solo dall’economicità del processo. Dipende anche dalla cultura dei consumatori che potranno “scegliere” la maglietta o la scarpa prodotta attraverso il riutilizzo della platica che inquina gli oceani non solo per il prezzo o per il bel design ma anche (io direi soprattutto) per il suo “valore aggiunto” ambientale. Affrontando questi temi Ferdinando Boero ha scritto di una “economia senza ecologia”, cioè della sistematica mancanza di quantificazione del valore ambientale di ogni processo economico. Dovremmo ribaltare il paradigma e fare entrare nella coscienza dei consumatori - cioè di tutti noi - il principio per cui al di sopra del valore economico di ogni bene o servizio conta il suo valore ambientale, cioè l’impatto sul consumo dell’unico bene che non saremo mai più in grado di ricomprare: il pianeta Terra.

Tomaso Patarnello

TOMASO PATARNELLO

Nato a Lecce il 20 febbraio 1961. Laureato in Biologia a Padova nel 1984, ha conseguito il titolo di dottore di ricerca in Biologia evoluzionistica nel 1988 presso la stessa università. Nel 1990-1991 è stato post-doctoral fellow al Department of Ecology and Evolution (State University of New York) e Visiting Research Fellow alla Hopkins Marine Station (Stanford University). Nel 1991 è diventato ricercatore universitario presso l’università di Padova. Ha pubblicato più di 140 articoli scientifici su riviste internazionali che hanno ottenuto più di 5.000 citazioni e un H-index di 38 (Google Scholar). Titolare di numerosi progetti finanziati da EU e NSF, ha sviluppato un’ampia rete di collaborazioni internazionali nell’ambito della genetica degli organismi marini. Attualmente è titolare di un contratto di Visiting Senior Researcher presso l’Univerisdade Estadual Paulista di San Paolo (Brasile) finanziato del Ministero della ricerca scientifica brasiliano CNPq. Ha fatto parte dell’editorial board di numerose riviste internazionali e valutatore di diverse agenzie di finanziamento nazionali ed internazionali tra cui European Science Foundation (ESF), National Science Foundation (NSF-USA) e Commissione Europea. È stato direttore del Dipartimento di Sanità pubblica, patologia comparata e igiene veterinaria (2008-2011) e direttore del Dipartimento di Biomedicina comparata e alimentazione (2012-2015). È stato anche presidente del corso di laurea triennale in Biotecnologie sanitarie (2008-2011) e presidente del corso di laurea magistrale in Biotecnologie per l’alimentazione (2005-2008).

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