SOCIETÀ
Tropico Mediterraneo. Un racconto del Mare nostrum e del suo imminente collasso
Un “oceano in miniatura”, un bacino semichiuso che ospita un patrimonio inestimabile di biodiversità. Un mare unico al mondo che svolge un servizio ecologico importantissimo per la produzione di ossigeno e la regolazione delle temperature. Il Mediterraneo è questo e tanto altro. Un capitale naturale ricchissimo, ma molto fragile, il cui precario equilibrio è oggi messo a rischio dai cambiamenti climatici e dall’impatto delle attività umane, che stanno distruggendo gli ecosistemi marini attraverso l’inquinamento e la pesca intensiva.
Tropico Mediterraneo. Viaggio in un mare che cambia (Laterza 2024) è il racconto di questa crisi. Il libro segue il percorso del reporter Stefano Liberti da una sponda all’altra del Mediterraneo. Un’avventura che inizia nello Stretto di Gibilterra, le mitiche Colonne d’Ercole che segnavano i confini del mondo antico, prosegue per la Sicilia, tocca le coste della Turchia e della Tunisia, l’Istria, l’Adriatico e l’Egeo e termina a Venezia. Ad accompagnare l’autore nel suo viaggio ci sono scienziati, attivisti, artisti, ma anche pescatori, piccoli imprenditori, famiglie e intere comunità che assistono in prima persona al declino del Mediterraneo.
Di pesci palla e granchi blu, di capitani di petroliere che si fanno attivisti e di lagune che diventano soggetti di diritto. Di inquinamento e di sostenibilità. Da Suez a Gibilterra, un viaggio di sei mesi attraverso le metamorfosi del Mediterraneo. Dal 20/9 in libreria pic.twitter.com/DgJyQLxNms
— stefano liberti (@abutiago) September 16, 2024
Il problema principale è dovuto all’aumento della temperatura delle acque che altera il complesso sistema di correnti che assicura l’apporto di ossigeno e sostanze nutritive alla flora e alla fauna marina. L’intero bacino, di conseguenza, è esposto a un grave rischio di anossia. Inoltre, il riscaldamento delle acque favorisce in tutto il Mediterraneo la proliferazione di specie aliene (provenienti cioè da altre aree del pianeta) che sostituiscono quelle autoctone e che, anche grazie alla mancanza di predatori naturali, si adattano sempre più facilmente ai nuovi habitat, mettendo a rischio la stabilità degli ecosistemi e costringendo il mercato ittico a intraprendere dei bruschi cambi di direzione.
Tra le specie aliene in cui Liberti si imbatte nel suo percorso troviamo il famigerato granchio blu – che ha danneggiato le attività di molluschicultura del Delta del Po ed è diventato l’unica fonte di reddito dei pescatori nell’arcipelago tunisino delle Kerkennah – ma anche il pesce coniglio, una specie erbivora particolarmente vorace che sta distruggendo rapidamente la flora sottomarina del Mediterraneo orientale, il lionfish (o pesce scorpione), arrivato dal Mar Rosso attraverso il Canale di Suez, e il pesce palla maculato, una specie velenosa che sta invadendo le acque di Cipro.
L’innalzamento del livello del mare espone inoltre le zone lagunari al rischio di inondazione ed erosione costiera. Questo è il caso di molte aree italiane dal Veneto, alla Romagna alla Campania. Per non parlare di Venezia, dove non solo il livello dell’acqua sale, ma la superficie sprofonda a causa del fenomeno della subsidenza.
Ma tra i territori del Mediterraneo che rischiano di sparire completamente troviamo anche le isole Kerkennah, che stanno affondando insieme alle conoscenze e alle tradizioni popolari, tra cui anche l’antica pratica della charfia, un metodo di pesca sostenibile considerato patrimonio immateriale dell’umanità.
Proprio la pesca è uno dei fattori determinanti nella crisi del Mediterraneo. Non solo l’eccessivo sfruttamento di questo piccolo bacino sta contribuendo al collasso dei suoi ecosistemi, ma l’arrivo delle specie aliene e i problemi causati dai cambiamenti climatici e dall’inquinamento stanno rendendo il mare molto meno prolifico.
A farne le spese sono i pescatori e i piccoli imprenditori che si trovano stretti in una morsa: da una parte devono rispettare le norme sempre più stringenti imposte dai governi locali e dall’Unione europea per la pesca sostenibile; dall’altra, proprio a causa di queste regole, si trovano svantaggiati nella guerra del pesce che si sta consumando, in particolare, nel canale di Sicilia, dove pescatori mazaresi, tunisini ed egiziani si fanno concorrenza nello stesso tratto di mare, ma soggetti a leggi differenti. Da qui l’urgenza di stabilire politiche comuni tra le diverse sponde del Mediterraneo per trovare il modo di realizzare una pesca a basso impatto che rispetti l’ambiente e risponda agli interessi delle popolazioni locali.
Più facile a dirsi che a farsi, scoprirà Liberti durante i giorni trascorsi a bordo dei pescherecci insieme a chi il mare lo vive in prima persona. Ascoltando le loro storie e confrontandosi con i diversi punti di vista emerge quanto le necessità del mare, del mercato e delle persone sembrino del tutto inconciliabili. Di fronte a questa realtà, l’autore rimane con più domande che risposte. Può esistere davvero una pesca industriale sostenibile? – si chiede – ed è possibile spezzare lo schema Ponzi della pesca nel Mediterraneo (ovvero il fenomeno per cui, a causa della mancanza di pesce nelle acque settentrionali, la pesca si concentra sempre più a sud, prendendo di mira nuove specie ed esaurendo le ultime aree ancora popolate)?
A minacciare ulteriormente il futuro del nostro mare si aggiunge, naturalmente, il problema dell’inquinamento. Mentre osserva con i suoi occhi i liquami oleosi che gorgheggiano nella baia di Gabès, in Turchia, l’autore si rende conto di quanto il Mediterraneo stia diventando una sorta di imbuto in cui si concentra un’immensa quantità di rifiuti plastici e chimici. A Gabès l’inquinamento prodotto dall’industria chimica tunisina (GCT) sta avvelenando l’aria, il mare e i suoi abitanti. Ne è una prova la distesa di carcasse di tartarughe concentrata in questo luogo tristemente soprannominato la “piccola Chernobyl”.
Dalla crisi del Mediterraneo e degli ecosistemi marini scaturisce anche il dramma umano. Sono tante le emozioni che si mescolano nelle persone e nelle comunità la cui storia è legata profondamente a queste acque: rabbia, frustrazione, tristezza e preoccupazione che in alcuni casi sfociano in una sorta di lutto ecologico, come accade tra gli abitanti di Agathonisi (Gaidaro), che faticano a immaginare il loro futuro su questa piccola isola greca.
Ma esistono anche persone e comunità che cercano attivamente di invertire la rotta attraverso la politica, la collaborazione e la sensibilizzazione. Tentativi che sono come gocce in un mare in crisi, ma che rappresentano anche la speranza che il futuro del Mediterraneo non sia ancora segnato. Questo impegno può andare nella direzione della ricerca scientifica, come nel caso dell’Archipelagos institute of marine conservation, una sorta di “università galleggiante” che si occupa, tra le altre cose, del monitoraggio della salute dei mammiferi marini tra le acque della Grecia, o della cooperazione internazionale, come avviene all’Istituto oceanografico di Spalato, che ha aperto un importante spazio di dialogo tra ambientalisti, pescatori ed esponenti politici.
Altrove l’attivismo passa attraverso la creatività, come quella degli artisti e registi di Gabès, o prende vita nelle mobilitazioni dal basso, come quella della giurista Teresa Vicente, che ha lottato per anni per riuscire a far sì che gli ecosistemi Mar Menor godessero di personalità giuridica, rendendo quindi i cittadini in grado di intentare cause legali nel nome di questa vasta laguna salata nel sud della Spagna.
Infatti, come riflette l’autore, non è ancora tutto perduto. Se da una parte gli ambienti marini sono molto fragili e particolarmente esposti agli effetti dei cambiamenti climatici, dall’altra essi sembrano ancora in grado di rigenerarsi e ritrovare il loro equilibrio. Dobbiamo però metterli nelle condizioni di riuscirci, finché siamo in tempo.
Per restituire il respiro al Mediterraneo – riflette Liberti – è necessaria una negoziazione internazionale, l’introduzione di politiche comuni per la pesca e lo sfruttamento dei mari e, più a monte, l’abbandono di una visione antropocentrica e tracotante nei confronti della natura a favore di una concezione più ecocentrica, che ci aiuti a capire quanto la salute del mare e dell’ambiente naturale sia strettamente legata al nostro benessere e alla nostra stessa sopravvivenza.