UNIVERSITÀ E SCUOLA

La "buona" università del futuro

Il disegno di legge governativo sulla scuola sta muovendo i primi passi alla Camera. Intanto si infittiscono interventi e anticipazioni sulla seconda parte del progetto complessivo di riforma dell’istruzione: quella dedicata all’università. Ad oggi non vi sono documenti ufficiali, ma intenzioni e linee guida emergono in abbondanza, sotto forma di dichiarazioni e interviste. A cominciare dal premier, che ha affermato che il 2015 sarà “anno costituente” per gli atenei. Cosa significa? Secondo le interpretazioni più accreditate, a breve dovrebbe essere pubblicato un dossier sulle priorità del governo per l’università. Alla presentazione del testo dovrebbe seguire una fase di ampia consultazione, anche online, tra tutti i soggetti interessati: il processo dovrebbe condurre, dopo l’estate, alla redazione di un disegno di legge. Si delineerebbe, cioè, un percorso analogo a quello compiuto per la riforma della scuola, con un’ovvia riserva: la strada al nuovo progetto verrebbe spianata nel caso in cui, e solo se, il ddl “La buona scuola” trovasse in Parlamento un cammino agevole, che consentisse di procedere secondo le tappe prefissate (approvazione entro primavera, assunzioni a settembre).

Ma quali saranno i temi cardine del progetto di riforma dell’università? Per ora si possono avanzare delle ipotesi che si basano su ciò che premier, ministro e altri esponenti politici di primo piano hanno dichiarato. Il disegno si basa sulla concessione agli atenei di un’autonomia fortemente rafforzata, che passerebbe attraverso la progressiva esenzione del mondo accademico dalle norme che governano la pubblica amministrazione. A Bologna Renzi ha affermato che non è accettabile che un ateneo soggiaccia “alle stesse regole di un piccolo Comune”, o che sia il Tar “a decidere sull’accesso ai corsi di laurea”. Gli ha fatto eco il sottosegretario Faraone, che ha sintetizzato così il rapporto ideale tra atenei e vincoli legislativi: “Alla politica spetta stabilire gli obiettivi, stanziare le risorse e valutare i risultati. Poi basta”. Lo stesso ministro Stefania Giannini, pochi giorni fa, ha detto che “obiettivo del governo”, sia pure a lungo termine, è scorporare il lavoro nelle università dai vincoli del pubblico impiego. Come questo si tradurrebbe per i docenti strutturati, ai quali non si applicano i contratti collettivi, è da scoprire. Ma è certo che il primo pensiero del ministro va, per sua ammissione, a tutto il precariato che coopera a didattica e ricerca: dai docenti a contratto, esplosi di numero negli ultimi anni, a borsisti, assegnisti, collaboratori. L’idea non certo dissimulata è quella di unificare tutte le forme di lavoro temporaneo di didattica e ricerca negli atenei in una sola tipologia contrattuale, che dovrebbe legare la flessibilità a maggiori garanzie. Il problema sarà capire quali saranno i confini di questa azione, e se si estenderà anche alle due nuove figure di ricercatori a tempo determinato (di tipo A e B) previste dalla legge Gelmini. Si è ipotizzato (da ultimo nelle parole della senatrice Puglisi) di “semplificare il percorso per arrivare in cattedra con un contratto a tutele crescenti”, che preveda “step di valutazione”: sarebbe auspicabile, invece, una tipologia ad hoc, che tenga conto delle peculiarità del lavoro universitario e della necessità di individuare parametri di presenza, produttività e risultati conciliabili con l’autonomia necessaria. In tutti i casi si punta al ringiovanimento della categoria dei docenti e all’aumento delle opportunità lavorative per i giovani ricercatori.

Legato a questo tema è quello della valorizzazione dei dottori di ricerca. Faraone sembra evocare un bivio nel percorso post-dottorale: se una minoranza (“un quinto, magari in futuro un quarto, non di più”) potrà concretamente aspirare alla carriera universitaria, per gli altri andrà eliminata ogni prospettiva di “parcheggio”, promuovendoli in altri àmbiti professionali. Il sottosegretario pensa, ad esempio, a una maggiore considerazione del titolo nei concorsi pubblici e in particolare nella scuola.

Altra priorità è il miglioramento degli indici di regolarità e buon esito nei percorsi universitari degli studenti. Secondo il sottosegretario Faraone “meno della metà dei nostri studenti è in corso, oltre la metà degli immatricolati non arriva mai alla laurea, i laureati in corso sono meno del 20%”. L’intento è quindi evidente: assicurare uno svolgimento più lineare della carriera studentesca, abbattendo il numero dei fuori corso, riducendo gli abbandoni e rendendo omogenei i tempi di conseguimento della laurea. In che modo? Faraone pensa anzitutto ai servizi di supporto agli studenti: potenziamento dell’orientamento in entrata e del tutorato durante la frequenza. Ma le idee del governo si spingono a riconsiderare la formula del 3+2: per il sottosegretario è necessario rendere la laurea triennale “un titolo subito spendibile”, in modo da non penalizzare chi decide di non proseguire con il biennio magistrale. A questo si collega una questione da tempo discussa, ma che sembra stare molto a cuore al governo: il rafforzamento del “legame tra università e sistemi produttivi territoriali”, anche con nuovi incentivi per le iniziative imprenditoriali che nascano all’interno dei gruppi di ricerca e con maggiore mobilità per docenti e studenti.

Capitale, infine, è la questione delle risorse e dell’ulteriore rimodulazione dei criteri per assegnare i fondi premiali. Faraone ha chiaramente indicato i settori su cui l’Anvur dovrà concentrare nuove attenzioni: didattica, servizi e prospettive occupazionali. In particolare dovranno essere premiati “la percentuale dei laureati” (intendendo evidentemente coloro che conseguono il titolo entro un tempo massimo oltre la durata legale) e il loro “inserimento nel mondo del lavoro”. Per l’agenzia di valutazione, un grosso impegno in più. Per gli atenei, l’ennesima sfida obbligata, e forse una nuova opportunità. 

Martino Periti

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