CULTURA

Campiello: le rischiose acrobazie degli scrittori parlanti

Carmine Abate, Francesca Melandri, Marco Missiroli, Giovanni Montanaro e Marcello Fois: sulle loro opere, lo stile, le case editrici che li sostengono è stato già scritto molto durante l’estate. Ma come se la cavano i cinque letterati quando si ritrovano a raccontare se stessi sui giornali? Per schivare le più comuni insidie del genere intervista (domande di abissale banalità, risposte programmatiche, vezzi snob, autoincensamento) quali strategie mettono in atto i cinque? Curiosando tra carta stampata, portali, blog verrebbe da rispondere che ciascuno ha le sue tecniche e che spesso, ma non sempre, anche il più sensibile intellettuale soccombe. Prendiamo Carmine Abate e la superclassica domanda “Perché hai iniziato a scrivere?”; la risposta è semplice e diretta: “Per rabbia. Per denunciare la condizione di persone costrette a dover lasciare la propria terra per poter lavorare”. Ma quando l’intervistatore agita l’esca della nostalgia, la trappola scatta. La morte di Lucio Battisti? “È stato come un sasso lanciato in un lago, che piano piano ha riportato a galla, per cerchi sempre più larghi, tutta la mia giovinezza”. Altro mare magnum, i giovani d’oggi: “Credo che sia difficile essere giovani al giorno d’oggi. Gli adulti hanno creato una situazione in cui sembra che non ci sia nulla di migliorabile. Esistono, invece, molti ragazzi intelligenti, curiosi, che coltivano svariati interessi”. Chi l’avrebbe mai detto.

La parola al giovane di talento Giovanni Montanaro. Anche per lui, sul mestiere di scrivere frasi secche, chiare: “Le parole non mi hanno mai tradito. Sono lo spazio cui non potrei rinunciare. Sono come il letto pulito di casa”. Ma la risposta da manuale è in agguato: cosa le piace? “Immergere la mano in un sacco di legumi. Spaccare la crosticina della crème brulée con la punta del cucchiaino. Far rimbalzare i sassi sulla superficie del canale Saint-Martin”. Certo, sul Saint-Martin a Parigi è un’altra cosa. Rincariamo la dose? “L’amore è motore di tutto, della felicità e dell’odio, del coraggio e del tradimento. È profezia e condanna, sentenza e libertà”. Vuole parlarci della Norvegia, in cui è ambientata La croce Honninfjord? “È un paese che mi piace. Ci sono stato in viaggio una decina di giorni”. Molto intensi, a quanto pare.

Altro giovane di successo, Marco Missiroli. Da principio, sincerità e umiltà inconsuete: “Gli inizi sono il mio punto debole. Sono ansioso, metto subito molta carne al fuoco, il lettore può sentirsi spiazzato”. Ma la retorica non ha fretta: prima o poi, azzanna. Che effetto fa descrivere un’emozione? “Dà una forza incredibile. Ti svuota, ti prosciuga. Butta a terra. Ma poi è lì, sulla carta. Ed è pronta a vibrare”.

Meno male che, ogni tanto, c’è uno come Marcello Fois: tutto, fuorché risposte da autore alla moda. Un suggerimento per chi sogna di scrivere? “Faticare, sudare e puzzare. Non c’è altro modo”. E ancora, in tre frasi scarne la capacità di creare un racconto di sé: “Intorno a marzo ricevetti tre telefonate. La prima, una signora dallo spiccato accento torinese: mi disse che ero finalista del Premio Calvino. La seconda, un editore: mi disse che aveva ricevuto il mio dattiloscritto e voleva pubblicarlo. La terza, mia moglie: mi comunicava che aspettavamo un bambino”. Per fortuna, a riequilibrare i piani c’è Francesca Melandri, che incarna il più pericoloso genere di autobiografie: i “tarallucci e cashmere”. Partiamo dall’infanzia: “A sette anni scrissi un poema sulle mie sorelle in cui mi vendicavo, in rima baciata, di tutti i torti subiti”. Viste le premesse, l’adolescenza si conferma sofferta: “Risolvere un’equazione o sedermi al mio amato piano per comporre un pezzo erano piaceri diversi, ma confrontabili”. Certo, l’autrice non manca di autostima: “Per scrivere il mio romanzo ho avuto validi alleati: razionalità, passione, intuizione, empatia...” (seguono altri otto alleati). E come madre, come si giudica? “Ho dei figli costituzionalmente immuni dal razzismo”. Per favore, ci lasci riprodurre il Dna. E i viaggi? La Melandri, naturalmente, è poliglotta, ma si concede una confessione da casalinga inquieta: “Ho il cruccio di non aver imparato nessuna lingua del subcontinente indiano. Lì l’inglese è talmente comodo che si diventa pigri”. Ah, sì, la casa... “Sono attratta dall’altezza. Le mie case sono sempre state attici”. Non avevamo dubbi.

 

Martino Periti

POTREBBE INTERESSARTI

© 2018 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012