SCIENZA E RICERCA

Celiachia: la cura senza glutine ovvero l’altro modo di mangiare

Metti un italiano a tavola e, nella maggior parte dei casi, trovi pasta, pane e pizza. Lontani dalle mode alimentari del momento, alcuni tuttavia sono costretti a rinunciare ai cibi principali della dieta mediterranea. “Da quando mi è stata diagnosticata la celiachia – racconta una studentessa dell’università di Padova – ho dovuto rivedere il mio stile di vita eliminando innanzitutto gli alimenti che contengono glutine. Devo pianificare la mia giornata, sapere in anticipo dove andrò. Se ceno con amici al ristorante, telefono per sentire se cucinano senza glutine. Non tutti però lo fanno e molti evitano di uscire”.

Nelle persone che soffrono di celiachia, malattia autoimmune che compare nei soggetti geneticamente predisposti, l’assunzione di alimenti che contengono glutine – proteina specifica di grano, orzo e altri cereali tra cui farro e kamut – provoca una reazione nel sistema immunitario. Questo riconosce la sostanza non come cibo ma come un “nemico da cui difendersi”: innesca una serie di reazioni che alla fine danneggiano gravemente la mucosa intestinale, impedendo un corretto assorbimento dei nutrienti. Cosa diversa è l’ipersensibilità al glutine e l’allergia al grano. “La gluten sensitivity – spiega Anna D’Odorico, docente di gastroenterologia dell’università di Padova – pur avendo sintomi sovrapponibili alla celiachia, non ha un’origine autoimmunitaria e non si accompagna a un danno intestinale. Si tratta di una malattia “nuova” scoperta da un paio d’anni per cui non esistono ancora test che ne consentano la diagnosi, se non l’esclusione di meccanismi allergici e autoimmuni all’origine del disturbo”. Sostanzialmente si va per esclusione. In entrambe i casi l’eliminazione del glutine dall’alimentazione vede la scomparsa dei sintomi. Nel caso di celiachia la dieta aglutinata deve continuare per tutta la vita, prestando estrema attenzione anche alla cosiddetta “contaminazione”: una minima quantità può scatenare i sintomi e il danno intestinale. Il glutine infatti può essere ‘nascosto’ nei cibi come additivo o può esserne semplicemente un contaminante. Mentre per la celiachia si conosce quanto glutine può essere assunto senza provocare danni intestinali (inferiore a 20 mg di glutine per chilogrammo di alimento) nel  caso di ipersensibilità al glutine questo non è noto e non si sa nemmeno se la dieta deve essere per tutta la vita o per periodi limitati nel tempo.

Da sfatare il mito delle diete “gluten free” per cui si suppongono per tutti effetti benefici sull’organismo: “Le diete prive di glutine – continua Anna D’Odorico – non hanno alcun effetto sul metabolismo, se non in presenza di celiachia o ipersensibilità al glutine: solo in questi casi l’eliminazione della sostanza favorisce il benessere del corpo, facendo scomparire i sintomi e i danni intestinali quando presenti”. Sebbene l’industria negli ultimi anni stia facendo passi avanti, gli alimenti senza glutine tendono ad avere in realtà una maggior concentrazione di grassi e un basso apporto di fibre che vanno compensati con frutta e verdura per ottenere una dieta equilibrata.  

Malattia in aumento negli ultimi decenni, le ragioni sono da imputare a diversi fattori tra cui la riduzione delle infezioni nell’infanzia, che diminuirebbe il rafforzamento del sistema immunitario, e il maggior utilizzo nel tempo di grano modificato con più elevate quantità di glutine. Non va dimenticato anche il miglioramento delle capacità diagnostiche che permette di individuare in Italia oggi circa 135.800 celiaci, ancora tuttavia troppo pochi rispetto al numero presumibilmente presente. Per facilitare il loro inserimento nella vita sociale, a scuola e a lavoro il ministero della Salute prevede lo stanziamento di fondi per sostenere le spese di assistenza e creare, a livello nazionale, una rete di strutture e servizi di supporto. Accanto infatti a un contributo mensile per l’acquisto di prodotti senza glutine, sono presenti sul territorio mense che distribuiscono cibi senza glutine (4.755 in Veneto nel 2011) e, soprattutto, sono aumentati negli ultimi anni i corsi di formazione rivolti agli operatori del settore alimentare come pure le associazioni di sostegno al paziente. Tornando al contributo, in Veneto è stato proposto che la sua erogazione sia subordinata a una visita specialistica che individua un programma dietetico con un livello calorico personalizzato. Iniziativa non ben accolta da tutti quei pazienti che temono una diminuzione del livello di assistenza. Resta l’attesa di conoscere le proposte che usciranno dal tavolo di lavoro regionale.

Monica Panetto

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