UNIVERSITÀ E SCUOLA

Che medici vogliamo per il 2020?

I test di accesso a Medicina sono un cattivo strumento, tenuto in una pessima data, che andrebbe sostituito al più presto da forme di valutazione più complesse: sono totalmente d’accordo, ditemi dove devo firmare. Sono meno d’accordo quando leggo su un quotidiano: “Alzi la mano chi ha mai sentito nominare Noam Chomsky” mentre su un altro giornale, che compro tutte le mattine, c’è il titolo: “Test di Medicina, la sorpresa è Chomsky”. Articoli del genere testimoniano dell’avanzare del degrado culturale italiano, un dilagare dell’ignoranza non degli incolpevoli studenti ma dei giornalisti che raccolgono le battute all’uscita delle aule e ci scrivono sopra. Tra l’altro, le domande di cultura generale nel test erano quattro su 60, contro le 23 di ragionamento logico, le 15 di biologia, le 10 di chimica e le otto di fisica e matematica, quindi pesavano per appena il 6,6%.

Già, perché il problema è che Noam Chomsky, come indicato nella domanda n. 25, è non solo l’autore di Il linguaggio e la mente, è non solo un intellettuale influente nel campo della filosofia analitica del linguaggio ma è il padre della linguistica moderna. Chomsky è l’autore della teoria della grammatica generativa, che spiega come mai la nostra specie sia in grado di creare infinite frasi a partire da poche strutture sintattiche: una capacità “innata” del nostro cervello. Sapere qualcosa del rapporto fra mente e cervello (su cui basta andare in libreria per trovare decine di testi divulgativi) forse non sarebbe stato necessario per il medico della mutua impersonato da Alberto Sordi nel celebre film del 1968, ma lo è di certo per chiunque voglia lavorare in un ospedale dopo il 2020. 

A difesa degli studenti si può, semmai, dire un’altra cosa: chi conosce Chomsky per la sua produzione scientifica e per il suo attivismo politico può anche non sapere che è sempre stato troppo radicale per cercare incarichi elettivi, men che meno quello di senatore degli Stati Uniti. In questo senso, la formulazione della domanda era sicuramente infelice.

Le polemiche su Chomsky, e quelle su Hobsbawm (oggetto della domanda n. 26), nascondono però un dibattito ben più ampio e rilevante di quello relativo alla notorietà o meno di questi personaggi. Dietro il chiacchiericcio sta la questione fondamentale di cosa significhi “studiare”, cioè se il processo educativo sia un percorso di apprendimento di “tecniche” slegate da ogni contesto e immediatamente applicabili sul lavoro, o se invece sia una lenta acquisizione di abilità (mentali e manuali) che permettano di diventare cittadini, prima che ingegneri o medici.

Negli ultimi anni, la crisi ha acutizzato l’ansia di imparare nozioni “pratiche”, un know-how che sia immediatamente “spendibile” il giorno dopo la laurea. Si sentono gli studenti ripetere a pappagallo che esiste un disallineamento cognitivo tra quanto prodotto dall’università e quanto richiesto dal mondo del lavoro favorendo la crescita del tasso di disoccupazione giovanile. La realtà è l’opposto: oggi occorre “imparare a imparare” perché la vita lavorativa è lunga e il ritmo dei cambiamenti tecnologici e organizzativi frenetico. Occorre imparare a ragionare per fare delle cose, non imparare a fare delle cose. Le matricole di oggi usciranno dall’università tra cinque o sei anni, quando alcuni mestieri e professioni saranno completamente trasformati, o addirittura scomparsi.

Soprattutto, nel dibattito misero e provinciale di questi tempi le nozioni pratiche vengono contrapposte all’ambiente in cui saranno utilizzate. Pier Paolo Brega Massone, l’ex primario ieri condannato all’ergastolo, sapeva certamente tenere in mano un bisturi ma lo usava per ammazzare i suoi pazienti al fine di accumulare quattrini per la sua clinica privata: è questo il modello di futuro medico che deve passare i test? Non c’è professione in cui il contesto filosofico ed etico dell’agire sia più evidente che in medicina: il giuramento di Ippocrate non riguarda la capacità di diagnosticare una malattia (una tecnica che si apprende) ma l’impegno solenne “di attenermi nella mia attività ai principi etici della solidarietà umana”. Forse sarebbe il caso di aggiungere al test un po’ di domande di filosofia, non di togliere quelle di cultura generale.  

Per finire, la domanda n. 24 chiedeva: “Che cosa è necessario per riformare un articolo della Costituzione italiana”. Visto che in questi giorni non si parla che di riforme, addirittura di abolizione del Senato, è proprio così inutile chiedere agli studenti di informarsi quel tanto che basta a sapere cosa succederà dell’impalcatura istituzionale della nostra democrazia?

Fabrizio Tonello

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