SOCIETÀ

Erotismo contro benessere: come cambia l’idea di salute

Grasso è bello? Il quesito oggi appare provocatorio, e già questo spiega molte cose sull’immagine che chili di troppo e adiposità trasmettono nella società salutista e consacrata al culto della perfezione fisica. È la stessa domanda che, curiosamente, ritroviamo nel titolo italiano di un film di John Waters, regista underground amante della dissacrazione e del racconto “antiestetico” che, nel 1988, narra a suo modo il trionfo dei ciccioni contro un perbenismo venato di apartheid nella Baltimora-bene.

E se già venticinque anni fa, per descrivere un mondo di grassi vincenti, bisognava ricorrere a un cineasta che esprimeva valori in antitesi al modello dominante, oggi titolare un libro Grasso è bello? sembrerebbe quasi oltraggioso. Lo fa (per l’editrice Cleup) Giuliano Enzi, medico che all’obesità ha dedicato la sua vita professionale, con l’intento di indagare l’evoluzione che la percezione della grassezza conosce nel corso della storia, e di valutarne le cause ricorrendo a ipotesi legate alla sua esperienza clinica, intrecciandole con considerazioni di matrice più generale.

L’assunto di Enzi è chiaro: il rifiuto sociale della grassezza non è uno standard, ma è strettamente correlato a epoche storiche, ambienti culturali, situazione socioeconomica. E la schizofrenia cui i grassi sono indotti è frutto di una strategia contrapposta e contemporanea dell’industria, che da un lato spinge al consumo di cibo e bevande sempre più calorici e meno sani, e dall’altro impone modelli di bellezza incompatibili con queste premesse, esigendo procedure cosmetiche e chirurgiche che tentino, vanamente, di rimediare ai danni prodotti. È una lacerazione che ha radici in uno slittamento dei valori legati alla corporeità: una tendenza avviata da qualche decennio, della quale il nostro paese possiede esempi illustri.

Trent’anni fa, una piccola impresa romagnola iniziò una corsa che l’avrebbe portata a divenire un colosso delle attrezzature sportive e per il tempo libero. La chiave stava in una parola, ben individuata dal fondatore dell’azienda: wellness. Leggiamo dal sito Internet della società: “Il wellness è il nuovo stile di vita, orientato al miglioramento della qualità della vita. Si raggiunge attraverso l'educazione ad una regolare attività fisica, un'alimentazione equilibrata ed un approccio mentale positivo”. Una concezione nata negli anni Cinquanta, e istituzionalizzata negli Stati Uniti da numerosi centri come il National Wellness Institute. Ma dell’approccio originario (equilibrio psicofisico per esprimere tutte le proprie potenzialità), resta poco. L’azienda romagnola oggi rifornisce le palestre private degli sceicchi. 

È difficile non collegare questa strumentalizzazione alla personalissima visione che del termine “fitness” offre un osservatore come Zygmunt Bauman, in Gli usi postmoderni del sesso (Il Mulino). Secondo Bauman, la società di un tempo era basata sul valore della health, il vigore, la sanità fisica che distingueva chi poteva lavorare e chi no, chi era abile al servizio militare e chi no: un discrimine che, evidentemente, era funzionale a una visione gerarchica e arcaica di famiglia e, secondo l’autore, al controllo sociale che istituzioni come la fabbrica e l’esercito potevano espletare. A health si contrapporrebbe oggi fitness, intesa però non come “benessere psicofisico”, ma come mera capacità seduttiva, costruzione di un’immagine eroticamente attraente, in grado di costituire il nuovo criterio guida di tutte le relazioni. In questo senso, un’icona in grado di riassumere efficacemente il nuovo sistema di valori potrebbe essere Valeria Lukyanova, la modella ucraina che ha deciso di consacrare la sua vita alla missione di modificare il suo corpo per renderlo quanto più vicino possibile a quello della bambola erotica per eccellenza: Barbie.

Ma per quanto possa impressionare una bambola in carne e ossa, è molto più insidiosa la nuova tendenza di alcune multinazionali della bellezza: spacciare la grassezza, o comunque la non perfezione fisica, come standard esteticamente desiderabile, truccando però le carte. Una decina di anni fa un colosso dell’alimentare, dei detersivi e della cosmetica, avviò una campagna di comunicazione mondiale a favore di un già popolarissimo marchio di prodotti per la cura del corpo. La campagna si dichiarava a favore della “Real Beauty”, la bellezza autentica. Venivano raffigurate, in effetti, donne “della porta accanto”, apparentemente senza alcuna “precauzione estetica”: anziane che posavano senza veli; giovani in forte sovrappeso, orgogliose del proprio fisico; signore di mezza età che non nascondevano imperfezioni cutanee o capelli ingrigiti. La campagna ebbe un successo straordinario, vincendo premi internazionali e accreditando quel marchio come simbolo della rivincita della “bellezza della normalità”. La rivoluzione culturale dell’industria estetica? Solo una minoranza, tra gli esperti, ha sussurrato quello che tutti fingevano di non vedere. I soggetti rappresentati erano solo donne. Il loro sovrappeso era distribuito in modo uniforme, senza evidenti modificazioni locali. Nessuna testimonial faceva mostra di denti che non fossero candidi, o lasciava intravedere un centimetro di cellulite. Le rughe, poi, segnavano solo volti dai lineamenti di particolare regolarità o con espressioni che suscitavano simpatia e tenerezza, come nel caso di una meravigliosa vecchietta. Quanto alle fotografie, sulle quali non è mancato il sospetto di ritocchi, erano pur sempre scattate da maestri come Annie Leibovitz. Insomma, anche la “bellezza autentica” era artefatta, falsa.  

Viene a questo punto da chiedersi, con Giuliano Enzi, se la “lipofobia”, il terrore patologico del grasso, sia davvero, sempre, giustificata clinicamente o non sia piuttosto il frutto di una strategia planetaria. Di certo oggi, di fronte a un medico che esortasse a una vita più sana, nessun politico oserebbe replicare “I miei amici che facevano sport sono tutti morti”. O, perlomeno, non lo racconterebbe in giro. (2/fine)

Martino Periti

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