SOCIETÀ

Grembiule e cartella non sono l’unica soluzione

Imparare a casa con i propri genitori: non è fantasia ma homeschooling, un’alternativa alla frequenza della scuola tradizionale per assolvere all’obbligo scolastico. Si tratta di un modello didattico che nasce nei paesi anglosassoni e affonda le proprie radici culturali in una visione marcatamente individualista anche dell’educazione: libertà contro obbligatorietà dell’istruzione. Negli ultimi anni l’homeschooling è in aumento negli Stati Uniti, ma anche in altri paesi come Australia, Canada, Ungheria, Giappone, Messico, Regno Unito. Le ricerche del National home education research institute (Nheri) dimostrano che gli USA contano nel 2010 circa due milioni di homeschoolers su una popolazione di circa 54 milioni di ragazzi in età scolare (dai 5 ai 17 anni), circa il 3,8%. Contro il 2,9% del 2007 e il 2,2% nel 2003. Stando agli studi condotti dal Nheri, nei test di valutazione del rendimento scolastico i ragazzi educati in famiglia sembrerebbero ottenere un punteggio del 15-30% superiore rispetto agli studenti che frequentano la scuola tradizionale (ma mancano conferme indipendenti su questo punto). Le ragioni che spingono la famiglia a fare questo tipo di scelta sono differenti. Motivazioni di ordine religioso innanzitutto, cui si unisce l’insoddisfazione nei confronti dell’ambiente scolastico e dei metodi di insegnamento. Ma non solo: il Nheri mette in evidenza la volontà da parte dei genitori di personalizzare e individualizzare il curriculum e l’ambiente di apprendimento dei figli e di fornire interazioni sociali “guidate e ragionate” con i pari e gli adulti.

E in Italia? Il modello scolastico della scuola familiare (o parentale) si è affacciato da poco. Esistono infatti i margini nella Costituzione (art. 30, 33, 34) e si fondano sul presupposto che spetti ai genitori il diritto-dovere di garantire la formazione ai figli e che a essere obbligatoria sia l’istruzione non la frequenza di una scuola. Una serie di decreti e circolari ministeriali approfondiscono poi i termini della questione. La legge prevede che i genitori che intendono provvedere direttamente all’istruzione dei loro figli debbano “dimostrare di averne la capacità tecnica o economica  e darne comunicazione anno per anno alla competente autorità”, cioè al dirigente scolastico di una delle scuole statali del territorio di residenza, che provvede agli “opportuni controlli”. Ogni anno lo studente dovrà poi sostenere un esame di idoneità per proseguire nel percorso formativo. Questo lo spazio di movimento, il resto è work in progress. Non senza qualche perplessità. “Il processo di formazione del bambino – osserva Paola Milani, docente del dipartimento di Filosofia, sociologia, pedagogia e psicologia applicata dell’università di Padova – prevede l’inserimento in un contesto di educazione e socializzazione, la scuola, e un confronto costante con i pari e gli adulti. Elementi di crescita che nell’istruzione parentale vengono a mancare”.

In assenza di dati ufficiali, per Gianna Miola, vice direttore generale dell’ufficio scolastico regionale per il Veneto: “Chi sceglie questo tipo di educazione sono soprattutto genitori di bambini adottati, con problemi di salute o difficoltà linguistiche, circostanze in cui ostacoli oggettivi ritardano l’iscrizione scolastica e fanno preferire un sistema di istruzione più protetto”.

Un differente orientamento didattico, più che un’alternativa alla scuola, sta invece alla base di quella che viene conosciuta come educazione libertaria o democratica, su cui si fondano per ora due “comunità” scolastiche in Italia, a Verona e a Bologna, oltre a numerosi gruppi ad Ancona, Osimo, Milano, Parma, Roma, che stanno crescendo pur non avendo ancora raggiunto una struttura organizzativa definita. Si tratta di una filosofia educativa diffusa in tutto il mondo, in più di 30 paesi che lavorano con oltre 40.000 studenti. La prima e più famosa è la scuola fondata da Alexander Neill nel 1921 a Summerhill, in Inghilterra. “L’educazione democratica – spiega Francesco Codello, dirigente scolastico di Treviso, animatore dell’International democratic education network e dell’European democratic education community in Italia – si fonda sul presupposto che il bambino sia capace e libero di scegliere modi, tempi e contenuti dell’apprendimento, partecipando paritariamente alle decisioni che riguardano la propria esperienza didattica”. L’educatore diventa un accompagnatore, il facilitatore di una formazione che pone al suo centro lo studente, ritenuto capace di scegliere individualmente “come, quando, cosa, dove e con chi imparare”. Allo stesso modo il genitore si pone in una posizione di ascolto, accompagnamento e confronto da un lato con gli educatori, dall’altro con i propri figli. La relazione che unisce adulto e bambino, sottolinea il Manifesto per l’educazione libertaria, si fonda sul reciproco rispetto. Le attività da svolgere, gli obiettivi da raggiungere e la stessa organizzazione della scuola vengono definiti all’interno del gruppo educativo, che si riunisce una-due volte a settimana, in cui ogni membro indipendentemente da età e ruolo ha diritto di voto, secondo un’istituzione di “democrazia partecipata”. La verifica dei risultati raggiunti avviene attraverso l’autovalutazione e il confronto reciproco tra l’educatore e il bambino e privilegia il processo di apprendimento, in termini di qualità ed efficacia del lavoro svolto. La valutazione dunque non è unilaterale, come avviene nelle istituzioni scolastiche tradizionali: il bambino può esprimersi sui propri educatori segnalando eventuali mancanze.

“Si tratta – conclude Codello – di scuole animate dai metodi di insegnamento steinariani e montessoriani, tra gli altri, in cui il contesto educativo e socializzante è ritenuto altamente formativo. Un modello che potrebbe rappresentare una risposta alle difficoltà in cui versa l’attuale sistema scolastico”.

Monica Panetto

© 2018 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012