SOCIETÀ

I numeri (contraddittori) dell'Europa in crisi

Novembre, tempo di resoconti negli uffici dell’Unione europea. Allegato all’Annual growth survey, viene presentato a Bruxelles in questi giorni anche  il Draft joint employment report, che fotografa la situazione sociale e occupazionale in Europa. Il dato indica come a settembre 2013 nella Ue vi siano ormai quasi 26,9 milioni di disoccupati (il 10,9% della popolazione attiva, ma secondo Eurostat sono il 12,2%), ma la crisi ha avuto andamento diverso a seconda dei Paesi, riflettendo lo sviluppo dei rispettivi Pil. Nei 12 mesi precedenti si registra infatti un aumento del tasso di disoccupazione in 16 Paesi (con Grecia cresciuta del 4,1%, Cipro al +4,3%, Italia +1,7%, Olanda +1,4%) e una diminuzione negli altri 12, con un bel risultato della Lettonia che vanta un -3,6%.

Si conferma quel che già si sapeva da tempo: maggiore incidenza della crisi nel sud Europa, particolarmente penalizzati i giovani (che hanno raggiunto un tasso complessivo di disoccupazione del 23,5%), ma non solo. La crisi pare aver intaccato di più i settori lavorativi tradizionalmente maschili e meno quelli femminili; sono stati maggiormente colpiti i rapporti di lavoro precari e le attività meno qualificate; i lavoratori con maggiore anzianità hanno visto crescere del 3.3% il loro tasso di occupazione nell’ultimo anno. Continuano a calare i lavori a tempo pieno, crescono stabilmente quelli part-time soprattutto per le donne. E proprio un alta percentuale di part-time rischia di inquinare le statistiche, in cui il tasso di occupazione è misurato in full time equivalents (Fte). Come dire che nel caso di due occupazioni da 20 ore le persone che lavorano sono due ma contano per una.

La buona notizia è che globalmente la disoccupazione ha smesso di crescere a metà 2013, ma è ancora troppo presto per capire se siamo davvero davanti a un’inversione di rotta. La chiave di lettura più interessante, invece, riguarda l’aspetto del job vacancy rate (cioè la percentuale di posti disponibili) che è rimasta immutata negli ultimi tre anni, mentre contemporaneamente saliva la percentuale di disoccupati.

Questo lascia intendere, come si legge nel rapporto, che uno dei problemi fondamentali da risolvere per uscire dalla crisi è la formazione e l’aggiornamento del capitale umano. Non è solo una questione di pura economia, insomma, ma anche del mancato incontro tra le capacità possedute dai lavoratori e quelle richieste dal mercato del lavoro, confermando il fatto che si tratta di una crisi strutturale di lunga portata. Cambia il mondo del lavoro e cambiano le richieste del mercato; devono mutare, di conseguenza, anche le strategie dei servizi pubblici per l’occupazione che devono diventare più efficaci, i supporti ai disoccupati e gli investimenti in capitale umano. Una delle parole magiche diventa quindi “formazione permanente”, ormai un classico nelle riflessioni in qualsiasi ambito, dalla scuola al lavoro, dove formazione non può essere solo un percorso teorico ma possibilmente di specializzazione e affinamento di saperi pratici.

Oltre a elencare quanto hanno fatto per il lavoro gli Stati membri nell’ultimo anno, il rapporto indica alcune possibili aree di sviluppo per il futuro. Il progredire delle tecnologie fa prevedere ad esempio 900.000 posti di lavoro entro il 2015 nel settore dell’Ict (Information and communication technologies); l’invecchiamento generale della popolazione richiederà un maggior numero di addetti per i servizi legati alla salute; i posti legati alla “green economy” sono passati da 2,4 milioni nel 2000 a 3,4 nel 2012 e ci si aspetta che crescano ulteriormente; l’industria dei trasporti richiederà sempre più lavoratori dalle qualifiche medio-alte.

In attesa che la crisi passi, tutte queste informazioni passano intanto nelle mani di chi dovrà redigere le raccomandazioni 2014 per i singoli Paesi, pubblicate dalla Commissione europea e recepite dai paesi membri ogni primavera/estate, con conseguente verifica di quanto effettivamente realizzato. Nel frattempo Bloomberg registra il sostanziale stallo dell’eurozona, con la crescita rallentata della Germania, la crisi dell’economia francese e il persistere della recessione italiana.

Cristina Gottardi

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