SOCIETÀ

Il declino dell'impero americano? Forse può attendere

Non sono più gli anni della caduta dell'Urss e del passaggio a democrazie di tanti paesi prima retti da regimi più o meno autoritari sotto lo sguardo benevolo degli Usa, vincitori indiscussi della guerra fredda, e neppure quelli dei trionfali accordi per il libero commercio siglati dalla presidenza Clinton mentre l'economia degli Stati Uniti cresceva a ritmi sostenuti. Il mondo non sembra più guardare Oltreoceano a ogni difficoltà, l'economia americana – per quanto in ripresa – è lontana dalla capacità di essere "locomotiva del mondo" che aveva negli anni Novanta e primi anni Duemila, e lo stesso effetto degli interventi militari a stelle e strisce, guardando l'Iraq o l'Afghanistan, sembra molto meno risolutivo di quanto si pensasse. 

Per non parlare della diplomazia, che - dall'Iran all'America Latina, dall'Ucraina all'eterna crisi (ora guerra aperta) fra Palestina e Israele fino al controverso caso Snowden, che ha seriamente incrinato la fiducia degli alleati più vicini, sembra piuttosto appannata nella sua capacità di "problem solving". Del resto, è dagli anni di Bush padre e figlio che si indica nell'ormai vicino 2017 l'appuntamento cruciale, il momento in cui Cina e Stati Uniti si equivarranno dal punto di vista economico – una scadenza che, complice la crisi esplosa nel 2007, dal punto di vista dell'economia è già arrivata, e con potrà non avere conseguenze. 

Nulla di cui stupirsi, dunque, se nei convegni universitari sono anni che si ipotizza il declino della leadership americana: la recessione e l’apparente inarrestabile crescita dell’economia cinese hanno soltanto ulteriormente alimentato un paradigma “declinista”  già ben presente e condiviso da studiosi quali Fareed Zakaria, che ha descritto lo scenario internazionale attuale come un “Post-American World”. Come spesso accade però, la comunità intellettuale è divisa e vi sono anche studiosi che sostengono come la leadership americana si sia semplicemente modificata e adattata alle caratteristiche del mondo globale. Robert Kagan e Robert J. Lieber, per esempio, ipotizzano che l’ineguagliabile potenza militare a stelle e strisce renda gli Stati Uniti ancora decisivi ed egemonici per evitare qualsivoglia disordine globale, in un riconosciuto ruolo da “poliziotto del mondo” e da “surrogato di un’autorità sovranazionale”. 

È da poco uscito il numero 23/2012 di RSAJournal, la rivista dell’Aisna, l’Associazione Italiana di Studi NordAmericani. Il volume è intitolato “The End of the American Century?” e ospita gli interventi di otto americanisti che si interrogano sul possibile declino dell’impero americano. Gli otto saggi contenuti in questo numero monografico, che esce con meritorio tempismo nel momento in cui gli eventi di Gaza e la crisi ucraina mostrano evidenti segnali di difficoltà dell’egemonia americana, affrontano l’argomento da punti di vista diversi, ma tutti con particolare attenzione all’aspetto storico. Il contributo di Mario Del Pero, che apre il volume, riflette sul concetto di ‘declino’ notando come esso sia presente nel dibattito intellettuale americano sin dalle origini, e come il senso di crescita e declino delle nazioni – non del tutto dissimile da quello degli organismi viventi – sia intrecciato con una retorica tipicamente americana e sia presente anche nelle narrazioni legate all’espansione territoriale e al "destino manifesto". L’autore identifica numerosi punti di svolta della storia statunitense in cui il concetto di declino è riaffiorato insistentemente e senza essere dipendente da cicli economici negativi – come l’inizio o la fine della Guerra Fredda. 

Il saggio di Michael Hunt, docente alla University of North Carolina at Chapel Hill verte invece su un’analisi della sfiducia internazionale verso gli Stati Uniti seguita ai controversi interventi militari in Afghanistan e Iraq e si chiede se la percezione del declino americano dipenda da un senso di cambiamento a livello globale o sia una dinamica prevalentemente statunitense. Per fare questo l’autore accenna – ma purtroppo non approfondisce – alcune tendenze negative del sistema politico statunitense recente, che si possono ricondurre a una generale “europeizzazione” della politica americana: elevata conflittualità, forti partiti centrali, senso di campagna elettorale permanente. 

Il contributo di Emily Rosenberg si addentra nella rilevanza attuale dell'“American way of life” e si chiede se quel sistema di valori fondato sulla vitalità economica e sulla benevolenza internazionale non sia stato del tutto travolto dagli eventi degli ultimi anni. David Elwood e Daniele Fiorentino, nei rispettivi saggi, affrontano il rapporto tra Stati Uniti ed Europa, l’influenza statunitense nella formazione del carattere europeo e l’importanza dell’industria culturale americana nell’ancor indubitabile egemonia nell’esercizio del “soft power”. In maniera simile, ma da un punto di vista politologico, Andrew Bacevich tratta dei rapporti tra Stati Uniti e Medio Oriente, mentre Tiziano Bonazzi si cimenta col tema dell’eccezionalismo americano. Chiude il volume Donatella Izzo dell’Università di Napoli che si interroga sul presente e sul futuro degli studi americani intesi come disciplina accademica. 

Sebbene i punti di vista siano diversi e le conclusioni talvolta in contrasto l’una con l’altra, pare emergere tra le righe una certa fiducia nella capacità americana di reinventarsi e ammodernarsi. Fatta salva la (quasi) condivisa accettazione dell’egemonia militare statunitense, parrebbe quindi che la variabile indipendente sia data dall’attuale vulnerabilità economica che, in qualche misura, inibisce l’esercizio della leadership di potenza militare, in quanto la politica estera americana sarebbe influenzata da possibili ragionamenti di necessaria cooperazione economica e di approvvigionamento di risorse energetiche. La chiave di volta sarebbe quindi, per gli autori, nella capacità di ritrovare una duratura crescita economica per garantirsi una più “libera” politica internazionale. E lo scenario delineato dalla maggior parte degli studiosi ospitati sulla rivista è positivo: le difficoltà economiche del gigante statunitense dovrebbero essere presto superate grazie alla flessibilità del mercato interno e del mondo del lavoro, in accordo con quanto sostenuto da molti (non tutti) economisti americani.

Marco Morini

© 2018 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012