SCIENZA E RICERCA

Il tempo non è solo una questione di orologio

In quella sovraffollata galassia che è Facebook, sono in tutto quattro o cinque le persone che hanno dato la loro approvazione, il pollice recto del “mi piace”, a un gruppo che si propone di “abolire il quarto d'ora accademico dall'università italiana”. E come stupirsene? Sono davvero pochi quelli che  rinuncerebbero a questo morbido cuscinetto spazio-temporale, provvidenziale scialuppa di salvataggio per i ritardatari, ma anche gradevole entr'acte che consente ai puntualissimi di calarsi nello spirito migliore per ascoltare una lezione. Oltre tutto, a dispetto di quanto forse immaginano gli abolizionisti, i quindici minuti iniziali “sottratti” all'insegnamento non sono una indolente invenzione italiana, prova ne sia (su Wikipedia.fr) la voce quart d'heure académique, dalla quale si apprende come questa istituzione di origine addirittura medievale sia diffusa in diversi atenei scandinavi e germanici (non certo noti per il loro lassismo) e come in francese assuma anche un'altra denominazione, ben più fascinosa, il quart d'heure de grâce

Il fatto è che sul tempo – e di conseguenza sulle sue possibili “dilatazioni” – abbiamo idee tanto più confuse, perché fondate su presupposti (erroneamente) assoluti. Basti pensare, per esempio, che l'ora unificata su un territorio nazionale – quella su cui oggi sono regolati tutti i nostri orologi – è una acquisizione piuttosto recente, visto che in Italia fu introdotta da Vittorio Emanuele II nel 1866 per uniformare ferrovie, telegrafi e trasporti marittimi. E gli Stati Uniti arrivarono ancora dopo, nel 1883, non senza fiere resistenze: “Che la gente di Cincinnati si mantenga stretta alla verità scritta dal sole, dalla luna e dalle stelle”, tuonò un quotidiano alla vigilia del provvedimento. A ricordarlo è oggi Joshua Keating in un articolo sull'ultimo “Smithsonian” non a caso intitolato Why Time Is a Social Construct, “Perché il tempo è un costrutto sociale”. 

Ricordando la distinzione operata dall'antropologo Edward T. Hall, secondo il quale i paesi si dividono in “monocronici” (più rigidi) e “policronici” (più fluidi), Keating cita lo studio condotto anni fa dal sociopsicologo Robert Levine della California State University per determinare – sulla base dell'efficienza degli uffici postali e dell'accuratezza degli orologi pubblici – il ritmo di trentuno stati sparsi nei diversi continenti (la ricerca è poi confluita in un volume uscito anche in italiano per le edizioni Fioriti, Una geografia del tempo). Risultato non certo sorprendente, i paesi più veloci sono risultati Svizzera, Irlanda e Germania, i più lenti Messico, Brasile e Indonesia. Ma, ammonisce oggi Allen Bluedorn, docente di management all'università del Missouri, non bisogna trarre conclusioni affrettate: “Monocronici e policronici hanno entrambi i loro vantaggi. La velocità non è necessariamente la cosa migliore – e neppure la lentezza”.

E questo vale non solo per i paesi, ma anche – forse ancora di più – per gli individui. Marc Wittmann, ricercatore presso l'Institut für Grenzgebiete der Psychologie und Psychohygiene di Freiburg, in Germania, ha appena pubblicato per Beck un libro, Gefühlte Zeit (“Il tempo percepito”), dove ha raccolto i risultati dei suoi esperimenti, mettendo in guardia tuttavia che “non esiste un'area specifica del cervello destinata al monitoraggio del tempo” e che si tratta dunque di ipotesi tutte da verificare. Di recente, per esempio, Wittmann ha chiesto a un gruppo di persone di osservare dei cerchi, fermi o in movimento, che apparivano sullo schermo di un computer. Immancabilmente, quando il cerchio sembrava muoversi verso l'osservatore, questi tendeva a sopravvalutare la durata dell'azione, forse perché – suggerisce Wittmann – l'oggetto che si avvicina è considerato una minaccia, i processi fisiologici interni si accelerano e di conseguenza il tempo “esterno” rallenta.

All'inverso, come spiegare il fatto che molte persone sono in grado, anche in assenza di orologio, di calcolare correttamente lo scorrere del tempo? Secondo gli scienziati, riferisce ancora sull'ultimo “Smithsonian” Dan Falk (Do Humans Have a Biological Stopwatch?), il cervello potrebbe emettere un flusso costante di battiti, “calcolandone” inconsciamente il numero all'interno di un dato intervallo. Teoria affascinante, ma tuttavia attualmente appoggiata sul nulla: “Purtroppo – scrive Falk – non è chiaro cosa siano questi battiti, come vengano prodotti, dove risuonino nel cervello”.

Non resta quindi che accettare ancora per un po' questa indeterminatezza, con gli effetti che ne derivano, non ultimo lo scontro socioculturale fra puntuali e ritardatari. E se i primi potranno citare come loro portabandiera Luigi XVIII con il suo celeberrimo “La puntualità è la cortesia dei re”, i secondi si vanteranno di avere fra i loro ranghi il grande Oscar Wilde, che sentenziò, lapidario: “La puntualità è il ladro di tempo”.

Maria Teresa Carbone

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