CULTURA

L’hai mai letto un vero romanzo inglese?

La prima associazione mentale che ciascuno di noi fa quando pensa alla narrativa inglese è immaginarsi vicende d’amore e di matrimoni più o meno combinati nella campagna inglese dei primi dell’Ottocento. Possibilmente i personaggi ruotano intorno a visite pomeridiane all’ora del tè e qualche volta c’è anche una battuta di caccia. Allo stesso tempo, però, quando si corre con la mente al di là della Manica, non si riesce a non identificare il paese con la sua capitale, che è felicemente nota per lo “stare al passo coi tempi”  (e dettarne il canone, anche), dall’architettura di Foster ai costumi dei suoi abitanti, provenienti da ogni parte del globo. Si finisce persino con il credere che lì, a Londra, non sia rimasto più nulla di inglese - a parte la regina, s’intende. 

Ce la presentano così anche i romanzieri inglesi contemporanei, come Kureishi, i cui personaggi si muovono nelle periferie londinesi affollate di genti dalle più diverse diverse origini, o Ian McEwan le cui storie mostrano un uomo contemporaneo rappresentativo dell’uomo occidentale in genere e potrebbero essere ambientate, ad esempio, negli Stati Uniti senza troppo alterare il senso del messaggio trasmesso, per non parlare di Jonathan Coe che con un linguaggio fortemente caratterizzato da ironia sottile e sguardo lucido mette in scena la contemporaneità inglese dagli anni Settanta ad oggi, dal punto di vista sia sociale che politico, senza mai evocare sulla pagina il peso della tradizione. Lo stesso Nick Hornby, forse l’autore inglese più conosciuto nel resto d’Europa, poi, di british ha di certo l’ironia, ma i suoi romanzi sono quanto di più lontano possa esserci dalla “vecchia Inghilterra”, grazie soprattutto a una scrittura sperimentale che rifugge decisamente le convenzioni e si avvicina al linguaggio colloquiale. Nulla di aristocratico, di lezioso o di solo vagamente affettato: i suoi personaggi camminano lungo i marciapiedi sorseggiando caffè di Starbucks, diretti in centri direzionali multipiano dove si giocano la carriera; hanno relazioni sentimentali “moderne”, ossia si lasciano e si prendono spinti dall’attrazione fisica, si ubriacano in discoteca e non nei pub, e non hanno nemmeno il ricordo ancestrale di cosa sia il tè delle cinque.

Un lettore nutrito di queste letture, quando incontra la prosa ironica di Alan Bennett, che mette in scena funerali e matrimoni con signore col cappellino, deridendole e insieme compiacendosene un poco, comincia a ricordare, però, che in Inghilterra l’aristocrazia esiste ancora: del resto, hanno persino una regina, che oltre ad essere ritratta sulle tazze del Giubileo e su ogni singolo francobollo, ossessiona le conversazioni di ciascun inglese che si rispetti. Fintanto però che domina l’ironia, ci convinciamo che quel genere di dinamiche, nella realtà, siano oramai solo un ricordo.

È quando però si incappa in Julian Fellowes che ci si rende conto che secoli di storia e di tradizioni non si sradicano facilmente. Fellowes, all’anagrafe Julian Alexander Kitchener-Fellowes, Baron Fellowes of West Stafford, è attore, sceneggiatore (ha vinto l’Oscar per Gosford Park) e scrittore ma soprattutto, neanche a dirlo visto il nome, è di origini aristocratiche, e ha un seggio alla Camera dei Lord.  Il suo primo romanzo, Snob (Neri Pozza, 2004) è completamente calato nella realtà dell’alta borghesia e dell’aristocrazia inglesi degli anni duemila e, a differenza di Alan Bennett, Fellowes le prende molto sul serio. 

Tra Hampstead e la contea di Broughton, ecco che un romanzo contemporaneo inglese rispolvera la questione dei matrimoni combinati, le battute di caccia e le pesche di beneficienza. Siamo di nuovo spettatori di un’Inghilterra che si riconosce nell’etichetta, si incontra nei circoli ristretti; quando Edith, la protagonista, figlia di un revisore di conti, riuscirà a sposare il conte Broughton, alla presenza di nientemeno che alcuni membri della famiglia reale, tutti sono convinti che la ragazza abbia raggiunto lo scopo di una vita. L’unico vero obiettivo di una ragazza giovane e ambiziosa: l’ingresso nell’Alta società, per la porta principale. Eppure, oggi come nell’Ottocento, la voglia di trasgressione e la passione si scontrano inevitabilmente con il raziocinio che deve guidare la brava arrampicatrice sociale. A scostare la cortina e a presentare il mondo aristocratico al lettore, la cui estrazione sociale con tutta probabilità non è quella dei personaggi che popolano il romanzo, né dell’autore, è l’amico della protagonista, io narrante della vicenda e aristocratico sui generis: ha infatti scelto di fare l’attore e di mescolarsi perciò alla gente comune. È lui il tramite tra il lettore e il mondo descritto nel romanzo; un mondo, però, – attenzione - che deve rimanere in ogni caso almeno parzialmente alieno e inspiegato a chi di quella cerchia non fa parte. Se quindi le prime 100 pagine suonano come un alternarsi di nomi altisonanti, personaggi di contorno e abitudini desuete e all’apparenza ampollose, è giusto così. Siamo nell’Inghilterra, quella vera, quella di sempre: un Paese in cui le distinzioni sociali ci sono ancora, forti e visibili; e in cui le appartenenze di ceto (qualcuno, che conosceva bene l’Inghilterra, avrebbe detto: di classe) assegnano in modo chiaro un posto nella società;  e questo è un vero romanzo inglese, di oggi.

Valentina Berengo

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