CULTURA

L’Italia liberata grazie a un clochard

Qualche settimana fa, il 28 gennaio, era il 70° anniversario della morte di Glyndwr Michael, una data che nella storia della Seconda guerra mondiale andrebbe ricordata. Soprattutto, andrebbe ricordata da noi italiani perché Michael (era il cognome, non il nome di battesimo) probabilmente salvò le sorti dello sbarco in Sicilia del 10 luglio 1943 e, con esso, la caduta del fascismo del 25 luglio e l’inizio della liberazione, che sarebbe arrivata nel 1945.

Michael non era un generale, non era uno scienziato, non era un politico: era un clochard, un vagabondo nato in Galles e morto a Londra per avvelenamento da veleno per topi. Il suo ruolo nella guerra è legato all’uso che fu fatto del suo cadavere, utilizzato da un geniale gruppo di spie inglesi per ingannare i tedeschi sul luogo dello sbarco in Europa. Una storia vera che supera di gran lunga le storie di spionaggio, piuttosto convenzionali, che Ian Fleming avrebbe iniziato a scrivere dieci anni dopo.

Fleming, all’epoca un giovane ufficiale di marina, era l’assistente di John Godfrey, un irascibile ammiraglio che sarebbe diventato il modello per il personaggio del capo dei servizi segreti, “M”, nei romanzi di James Bond. Insieme, compilarono un documento chiamato “Il pescatore di trote” dove si facevano 51 proposte (una più bizzarra dell’altra) per convincere i tedeschi a recitare la parte delle trote e ad abboccare. La posta in gioco era ingannarli sui piani alleati salvando la vita di migliaia di soldati.

La proposta più stravagante di tutte era quella di far ritrovare un cadavere in mare che apparentemente avrebbe dovuto essere quello di un ufficiale inglese impegnato in una missione top secret. Il corpo doveva essere dotato di una identità perfettamente credibile e portare con sé documenti convincenti che indicassero come luoghi dello sbarco nell’estate 1943 la Grecia e la Sardegna anziché la Sicilia. Nacque così l’operazione Mincemeat, carne tritata, (gli inglesi hanno sempre avuto un gusto per l’umorismo macabro).

Gli artefici di Mincemeat furono Ewen Montagu, il rampollo di una dinastia di banchieri di Londra, e Charles Cholmondeley, un giovane tenente dell’aviazione alto 1,88 e dotato di baffi lunghi 15 centimentri, accuratamente incerati ogni giorno. I due si misero immediatamente al lavoro per costruire un’identità al corpo da far ritrovare agli spagnoli (il regime di Franco simpatizzava con i nazisti e ospitava una nutrita colonia di spie tedesche) e crearono il “maggiore William Martin”, che aveva una fidanzata, Pam, un padre affettuoso e perfino uno scoperto in banca (per la foto della fidanzata Montagu usò una delle graziose segretarie che lavoravano nella stanza n. 13, dove il complotto veniva portato avanti).

L’identità c’era, quello che mancava era un corpo. È a questo punto che Glyndwr Michael entra nella nostra storia.

Il problema era il fatto che i corpi si decompongono rapidamente e un’autopsia avrebbe immediatamente rivelato che il cadavere non era quello di un morto da qualche giorno di annegamento ma quello di una persona deceduta per altre cause. Un frigorifero speciale che mantenesse la temperatura a 4° centigradi avrebbe permesso di rallentare al massimo la decomposizione senza lasciare traccia di congelamento nei tessuti. I medici avvisarono Montagu e Cholmondeley che però “dovevano spicciarsi” se volevano che l’operazione riuscisse.

A fine aprile, quasi fuori tempo massimo, il corpo di Michael, ora dotato di tutti i documenti che lo identificavano come maggiore Martin, di spiccioli e perfino biglietti di teatro in tasca, fu imbarcato sul sottomarino Seraph e partì dalla base di Holy Loch, in Scozia. Nella notte del 30 aprile fu calato in mare a brevissima distanza dal porto di Huelva, nella Spagna meridionale. Le sorti dell’operazione adesso dipendevano da fattori  su cui Montagu e Cholmondeley non avevano alcun controllo: sarebbe stato ritrovato o portato al largo dalle correnti? Sarebbe stata fatta un’autopsia? Gli spagnoli avrebbero ignorato i documenti che portava con sé o li avrebbero consegnati ai tedeschi? E, soprattutto, i tedeschi ci avrebbero creduto? Tutto poteva andare storto.

Mincemeat finì quasi in fumo perché il corpo mostrava avanzati segni di decomposizione ma il medico spagnolo che effettuava l’autopsia non ci badò troppo e firmò un certificato di morte per annegamento. Poi la marina spagnola, dove c’erano molti antifranchisti, stava quasi per riconsegnare agli stessi inglesi i documenti segreti che indicavano come imminente l’invasione di Grecia e Sardegna, senza permettere ai tedeschi di vederli. Infine, a Berlino, il capo del controspionaggio dell’esercito, il tenente colonnello Alexis von Roenne avrebbe potuto essere scettico sull’autenticità del “troppo perfetto” maggiore Martin.

Invece, andò tutto per il meglio. Gli spagnoli passarono i documenti a degli agenti dell’Abwehr piuttosto creduloni e von Roenne, che aveva l’intera fiducia di Hitler, era in realtà simpatizzante di un gruppo di ufficiali antinazisti guidati dal colonnello Stauffenberg, che nel 1944 avrebbero cercato di uccidere Hitler. Von Roenne, che sarebbe poi stato impiccato per questo, certificò l’autenticità dei documenti e l’alto comando tedesco iniziò immediatamente i preparativi per rafforzare le difese nella zona di Salonicco e in Sardegna.

Quando, il 10 luglio 1943, una armata di oltre 3.000 navi si presentò al largo di Gela e iniziò a sbarcare le truppe americane e inglesi, la sorpresa fu praticamente completa. In due settimane Mussolini cadde, in tre la conquista della Sicilia era completata, con perdite insignificanti da parte degli alleati. Senza il corpo di un vagabondo gallese e senza la fantasia di due artisti dello spionaggio come Mantague e Cholmondeley l’invasione avrebbe potuto essere respinta e la liberazione dell’Italia rinviata a chissà quando. La storia venne parzialmente alla luce nel dopoguerra ma solo nel 2010 un libro dello storico Ben Macintyre ha ricostruito tutti i particolari e dato a Mincemeat l’importanza che meritava.

Fabrizio Tonello

Il gruppo dell'operazione Mincemeat

© 2018 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012