CULTURA

La scuola del futuro sarà tutta un gioco

La sua piattaforma di base, il Gamestar Mechanic, ormai usata in 4.000 scuole, è stata sviluppata in maniera creativa dai ragazzi in 350.000 modalità diverse ed è stata utilizzata da oltre 10 milioni di giocatori in più di 100 diversi Paesi. Una sua società, la E-Line Media, insieme con l’Institute of Play di New York ha ricevuto un finanziamento dalla John D. and Catherine T. MacArthur Foundation (negli Stati Uniti succede) per sviluppare Quest to Learn, un progetto di scuola pubblica per gli studenti di New York fondata sui principi della progettazione di videogiochi elaborati nel corso di trent’anni di ricerca sulla didattica.

E ora tocca a lui, Alan Gershenfeld, spiegarci dalle colonne dello Scientific American, la più importante rivista di divulgazione scientifica del pianeta, Why Gaming Could Be the Future of Education. Perché il (video)gioco potrebbe essere il futuro dell’educazione.

D’altra parte io stesso ho visto mio figlio scorrazzare per ore lungo i viali della storia. Passare dall’Egitto dei faraoni, fare quattro chiacchiere ad Atene con Platone e Aristotele, sfidare in battaglia Giulio Cesare, oltrepassare i confini tra la Germania di Hitler e l’Unione Sovietica di Stalin, entrare furtivo nel laboratorio di un alchimista cinese e poi nei laboratori di Los Alamos, confondendosi tra i 5.000 scienziati e ingegneri del Progetto Manhattan. Ho visto mio figlio insieme  a due, a tre, a venti ragazzi di ogni parte del mondo, costruire nuove città e dar vita a nuove civiltà. Non sempre migliori della nostra. Ma con le loro regole. Con il loro instabile ordine. Con la loro irriducibile complessità.

Per questo non mi meraviglio se Alan Gershenfeld viene a illustrarmi le potenzialità didattiche dei suoi games. Anzi, dei suoi serious games. I luoghi dove mio figlio e tutti i suoi amici, nativi digitali, vivono parte notevole del loro tempo. Divertendosi, moltissimo. Apprendendo, molto. Simulando, sempre.

Cosa sono i serious games? Beh, se ancora non lo sapete siete degli inguaribili “immigrati digitali”. Si tratta, come suggerisce una facile traduzione dall’inglese, dei “giochi seri”. E sono il luogo dove vive, si esercita e apprende la “mente simulante”. Ovvero quella dimensione della nostra mente destinata a diventare sempre più egemone nel futuro prossimo venturo. O, detto in maniera più rigorosa: un’attività digitale interattiva che, attraverso la simulazione virtuale, consente di fare esperienze precise, accurate  e complesse; e, attraverso la forma del gioco, permette di intraprendere percorsi attivi, partecipati e coinvolgenti di apprendimento in ogni e qualsiasi campo: dalla storia alla scienza, dalla filosofia alla vita di strada.

I serious games sono nati appena una dozzina di anni fa ai confini tra la scienza della simulazione e l’intelligenza artificiale, ma sono già oggetto – come rilevavano Luigi Anolli e Fabrizia Mantovani, psicologi della comunicazione, in un libro di un paio d'anni fa, Come funziona la nostra mente. Apprendimento, simulazione e Serious Games – di 30.000 articoli scientifici, 1.500 libri (di cui 1.499 pubblicati fuori d’Italia) e 4.000 capitoli di libri. Alan Gershenfeld, proprio come Anolli e Mantovani, parte da alcuni dati acquisiti per avanzare le proprie idee sul gioco come futuro dell’educazione. Serious game non è un ossimoro. Il gioco è da sempre una cosa seria. Talvolta molto seria. Il gioco è da sempre non un metodo, ma “il” metodo con cui i cuccioli d’uomo apprendono a muoversi nel mondo. Simulando la realtà.

Anche la scienza è un gioco di simulazione. Cos’è un esperimento se non la simulazione di una realtà semplificata? Ma, con l’avvento del computer, la simulazione scientifica può avvenire in un ambiente virtuale. E l’esperimento virtuale può essere ripetuto infinite volte, con tutti i cambiamenti immaginabili, senza distinzione di spazio e di tempo. Nella simulazione al computer qualcuno ha visto una novità epistemologica. Un modo nuovo di produrre nuova conoscenza (intorno al mondo reale) che va oltre le "certe dimostrazioni" (la teoria) e le "sensate esperienze" (le osservazioni e/o gli esperimenti realizzati con i sensi e con le loro protesi, gli strumenti scientifici) di galileana memoria.

La simulazione e il computer si sono incontrati e si sono trasformati in gioco accessibile a tutti – nativi o immigrati curiosi in terra digitale – all’inizio del XXI secolo, dando vita ai serious games. Giochi non solo seri, ma presi sul serio tanto nel salotto di casa da giovani e meno giovani dall’attitudine inguaribilmente ludica, quanto nelle accademie militari, nelle aziende hi-tech, nei centri di addestramento per piloti, nelle sale chirurgiche. Il successo è stato ovunque enorme. Perché? Perché i serious games sono coinvolgenti, certo. Ma anche e soprattutto perché consentono di apprendere. Anzi, di “capire il mondo” e tentare di governarne la complessità.   

Ma, sostengono tanto Alan Gershenfeld quanto Anolli e Mantovani, i giochi al computer e/o su internetsono – possono diventare – anche lo strumento principale per apprendere nel futuro prossimo venturo. Perché solo una “mente simulante” può capire e muoversi a proprio agio in un mondo sempre più interconnesso e, quindi, sempre più complesso. L’antica didattica con la sua logica lineare, i suoi strumenti poco interattivi, le sue certezze incontestabili non ci aiuta più a capire il mondo. A muoverci nel mondo. Dobbiamo trasformare le nostre scuole in luoghi dove allenare le giovani “menti simulanti” all’interazione continua, alle dinamiche non lineari, alla logica fuzzy. Dobbiamo trasformare le nostre scuole in altrettanti serious games.

Troppo forte la proposta, per essere digeribile? Ne parliamo la prossima volta. E ora, siamo seri: andiamo a giocare.

Pietro Greco

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