SOCIETÀ

L'istruzione paga. Ma chi paga per l'istruzione?

Uno sconfortante penultimo posto nella classifica della spesa pubblica per l'istruzione, piccoli progressi (pre-crisi) sul fronte dell'accesso all'università, aumento dei costi a carico delle famiglie: questa l'istantanea scattata dall'Ocse alla scuola e all'università italiane, nell'ambito del rapporto annuale Education at a Glance 2012. Uno studio – 560 pagine, 140 grafici, 200 tavole e oltre 100.000 dati complessivi – che è la summa numerica dello  stato dell’istruzione nel mondo. E che ci permette di inquadrare le nostre (poche) virtù e i nostri difetti nel quadro complessivo dei 34 paesi più sviluppati.

La cultura paga

Il primo dato che risalta nettamente è che, anche in tempo di crisi economica, scommettere sull’educazione rimane una scelta vincente, sia per gli individui che per i governi. Nel 2010 ad esempio nei paesi OCSE il tasso di disoccupazione per i laureati era in media del 4,7%, contro il 7,6% per i diplomati e addirittura il 12,5% di coloro che non avevano un titolo di scuola superiore. Nel contesto della crisi globale i differenziali nelle remunerazioni tra laureati e non si sono addirittura ampliati, pur permanendo anche in questa fascia del mercato del lavoro un gender gap (il differenziale retributivo tra maschi e femmine), più o meno ampio a seconda dei vari paesi: se nel 2008 un uomo laureato guadagnava il 58% in più rispetto al suo omologo con diploma di scuola superiore (il 54% per le donne), nel 2010 tale vantaggio era aumentato fino al 67% (il 59% per le donne).

Un beneficio economico, quello derivante da un titolo universitario, che nel corso della vita assume proporzioni consistenti (160.000 dollari per gli uomini e in 110.000 per le donne), e che giova anche ai contribuenti; l'Ocse stima in 100.000 dollari per laureato il maggior incasso per le entrate tributarie proveniente dai loro redditi: una cifra pari a circa tre volte l'ammontare dell'investimento pubblico di partenza. I livelli d'istruzione superiore sono infine correlati con una speranza di vita più lunga, una maggiore affluenza alle urne e atteggiamenti più favorevoli all'eguaglianza dei diritti per le minoranze etniche.

Su queste tendenze, che l'Ocse documenta da tempo, è intervenuta però la crisi economica, i cui effetti negativi si stanno concentrando proprio sui più giovani. In tutti i paesi oggetto dello studio la disoccupazione giovanile negli ultimi anni è aumentata, così come la percentuale dei giovani NEET, che non studiano e non lavorano (NEET: Not in Education, Employment or Training), che hanno raggiunto il 16% nella fascia tra i 15 e i 29 anni. Un dato sul quale può avere influito anche il fatto che la spesa per l’istruzione, pur non diminuendo nei valori assoluti, tende sempre più a gravare sugli studenti e sulle loro famiglie. 

E in Italia?

Un primo dato confortante è che l’Italia, pur rimanendo uno dei paesi sviluppati con livelli di scolarizzazione più bassa, soprattutto dopo le riforme universitarie dei primi anni 2000 sembra progressivamente colmare il gap rispetto agli altri paesi evoluti. Se infatti oggi è laureato appena un italiano su 10 tra i 55 e i 64 anni, nella fascia tra i 25 e i 34 anni la percentuale sale già al 20%. Siamo ancora ben al di sotto della media OCSE (28%), ma nel Rapporto si stima che dei giovani di oggi circa il 32% raggiungerà la laurea – anche se va detto che gli ultimi dati sulle immatricolazioni segnalano da qualche anno una riduzione, sia in termini assoluti che in percentuale sulla popolazione diciannovenne.

Rimangono comunque problematici diversi aspetti del sistema: in primo luogo la difficoltà dei giovani a trovare un lavoro adeguato dopo la laurea. Nel nostro paese per esempio la differenza di reddito a favore dei laureati è estremamente bassa tra i giovani (appena il 9% tra i 25 e i 34 anni, contro una media OCSE del 37%), mentre è tra le più alte tra i lavoratori maturi (96% tra i 55 e i 64 anni, contro una media del 69%): segno da una parte di un collegamento estremamente difficile tra istruzione e lavoro, dall’altra di un sistema che privilegia ancora troppo gli insider, in particolare tramite il meccanismo degli albi professionali.

Un altro dato particolarmente preoccupante è che la percentuale dei NEET, le persone che non studiano e allo stesso tempo non lavorano, dopo essere scesa costantemente dal 1998 (26%) al 2003 (19%), negli ultimi anni è di nuovo risalita al 23%, comunque molto al di sopra della media OCSE (16%): peggio di noi oggi fanno solo Spagna, Irlanda e Turchia.


Nella figura: i paesi oggetto dello studio disposti secondo la percentuale della spesa pubblica totale dedicata all’educazione e all’istruzione (inclusi sussidi e prestiti, borse di studio e servizi come case dello studente e mense).

 

Ma le note più dolenti arrivano quando si parla di soldi. Il sistema di istruzione italiano si conferma relativamente sottofinanziato. Nel 2009 l’Italia impiegava nell’istruzione circa il 9% della spesa pubblica, dato peraltro in costante discesa nell’ultimo decennio: tra i paesi esaminati solo il Giappone stava peggio. La spesa inoltre risulta relativamente sbilanciata a favore delle scuole primarie e pre-primarie a svantaggio però del sistema universitario. Se infatti l’Italia risulta in linea con la media OCSE per quanto riguarda la spesa per studente, dalla scuola materna ai master universitari  (9.055 dollari contro una media di 9.249), a livello di università questa risulta nettamente inferiore alla media degli altri paesi sviluppati (9.561 contro 13.719 dollari). E va detto purtroppo che uno sguardo aggiornato agli anni più recenti peggiorerebbe il quadro, visto che il Rendiconto generale dello stato registra, dal 2008 al 2011, una riduzione di spesa di circa il 5% per la scuola, del 10,5% per l'università e del 14,7% per la ricerca (si veda il rapporto Giarda presentato nell'ambito della spending review, alla pagina 28).

In Italia risulta inoltre accentuata la tendenza, comune a tutti i paesi, di scaricare sempre più sugli studenti e le loro famiglie i costi dell’istruzione: se nel 1995 era finanziato dallo stato l’82.9% dei costi, contro una media OCSE del 78.9%, nel 2009 la percentuale di aiuto pubblico era scesa al 68.6% (media OCSE: 70%). Negli ultimi dieci anni infine l’incremento della spesa pubblica per l’università è stato del 4%: il dato più basso tra i paesi esaminati.

L’Italia dunque, a differenza di altri paesi, per reagire alla crisi non dà l’impressione di scommettere sull’istruzione, in particolare quella universitaria. Una scelta che rischia di pesare non solo sull’economia, bensì sulla stessa struttura sociale del paese.

 

Daniele Mont D’Arpizio

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