CULTURA

Maestri, vicoli e scugnizzi

Immaginatevi una stanza, due persone che conversano, maestra e allievo, un registratore acceso. E ancora libri, incursioni nell’antropologia, nella filosofia, nella pedagogia e nelle neuroscienze. Con rimandi alla religione ebraica e a quella cristiana, al pensiero di Socrate, Protagora, Kant, Hegel, Freud, alle teorie di Martin Buber filosofo e pedagogista austriaco, di Piaget, Bruner e Vygotskij, studiosi di psicologia dello sviluppo cognitivo. Solo per citarne alcuni.

A discutere sono Clotilde Pontecorvo e Marco Rossi-Doria. Figura di rilievo nella storia della pedagogia italiana lei, professore emerito di psicologia dell’educazione alla Sapienza di Roma. Insegnante alle elementari da quasi 40 anni lui, primo "maestro di strada" e sottosegretario all’Istruzione durante i governi Monti e Letta. Il risultato del loro dialogare è un libro, Con l’altro davanti (libreriauniversitaria.it edizioni 2014), che l'autore ha presentato di recente anche a Padova. 

È una nuova dimensione pedagogica, quella introdotta alla fine degli anni Novanta del Novecento da Rossi-Doria, che manca del contesto classe, di orari definiti, di un programma prestabilito. I luoghi dell’apprendere erano le strade di Napoli, dove il fenomeno della dispersione scolastica e l’esclusione sociale costituivano un problema. Il docente andava ovunque i bambini si ritrovassero per giocare e socializzare, perché da qui era necessario ripartire per il recupero. “… La scuola, così come è fatta – scriveva nel suo libro Di mestiere faccio il maestro –  serve davvero molto poco ai poveri e agli esclusi. Forse è maturato il tempo per rifondare dal basso… una scuola popolare o comunitaria”. E questo poteva avvenire solo attraverso i maestri di strada, insegnanti itineranti sia nei luoghi che nelle possibilità educative. E aggiunge di più. Maestri di strada, sostiene, si deve essere anche nel contesto scuola, nel senso che si deve “inventare, costruire vera relazione educativa come in un viaggio a cui si appartiene integralmente, lungo la strada”. 

Si tratta di una visione che nel 1998 su iniziativa di Rossi-Doria, affiancato da Angela Villani e Cesare Moreno, si concretizza a Napoli nel progetto Chance, attivo fino al 2009. “Scuola della seconda opportunità” sostenuta anche da fondi pubblici, Chance si proponeva di recuperare i ragazzi inadempienti all’obbligo scolastico attraverso un percorso educativo che si muoveva dentro e fuori le mura scolastiche. “Anche nel nostro Paese – affermava Rossi-Doria in un articolo di qualche anno fa – la povertà coincide con la mancanza di effettiva frequenza di una scuola: meno si sa e più si è poveri. Ma attenzione: la scuola che affranca dalla povertà, in tutto il mondo, è quella intesa come luogo comunitario, partecipato, di apprendimento situato e di pedagogia laboratoriale…e non solo intesa come auditorium”. 

Sebbene le esperienze sul campo e le letture fossero state numerose nel corso degli anni, mancava ancora qualcosa. Racconta Rossi-Doria durante la presentazione del suo libro a Padova: “Mi sono laureato molto tardi Ho studiato tanto ma non mi laureavo mai. Non ne avevo l’utilità pratica: ho deciso di rimanere insegnante di scuola primaria e chi entrava nel 1975 non aveva bisogno di un diploma di laurea. A un certo punto, tuttavia, ho ritenuto opportuno che tutti gli spezzoni dei miei studi interrotti fossero ricondotti da qualche parte”. Rossi-Doria si iscrive alla Pontificia università salesiana e alla tesi arriva con dei pensieri ricorrenti in testa. “Mi chiedevo quali fossero i fondamenti del mio mestiere, dell’insegnare. E quindi mi sono rivolto alla persona che ritenevo essere la mia maestra, Clotilde Pontecorvo. Donna molto colta, accogliente e al tempo stesso molto rigorosa”.  Sono, in generale, i fondamenti delle relazioni umane a interessarlo. Le riflessioni, gli incontri, le interviste con la pedagogista portano infine alla laurea e, poi, al libro.

La conversazione parte da una celebre affermazione di Martin Buber. “Ogni vita vera è incontro”. E ruota intorno a un tema: l’altro da sé. Argomento che campeggia già nel titolo del volume e si ispira al passo della Genesi in cui l’uomo viene separato dalla donna, dopo la creazione come unico ente, e i due vengono posti uno davanti all’altro. Si introduce in questo modo l’alterità tra i sessi e, più in generale, tra una persona e l’altra. Se non esistesse l’altro, non ci sarebbe vita intesa come relazione, riproduzione e generazione. Né avrebbe senso parlare di comunità e società. Riconoscere l’altro significa accogliere la diversità, implica rispetto, dialogo, reciprocità. 

 “Non siamo soli al mondo – sottolinea Rossi-Doria ai presenti – e per tutta la vita dobbiamo essere in qualche modo accompagnati e aiutati dagli altri, ma anche limitati. E in questo c’è anche il fondamento dell’educazione”. E continua: “L’educazione non avrebbe senso se non fossimo nella condizione di dover crescere insieme, se non fossimo uguali. L’alterità sta alla base dell’uguaglianza e dell’apprendimento”. 

Senza un ordine preciso, senza schemi prestabiliti, la conversazione segue il fluire dei pensieri attorno ad alcune parole chiave. Rispetto innanzitutto. Nei confronti di chi ci sta di fronte, del diverso, dell’avversario, riconoscendo a ognuno la propria individualità e garantendo una reciprocità che sta alla base del dialogo. Un concetto di rilievo anche in ambito educativo. L’insegnamento non dovrebbe avvenire infatti in una prospettiva gerarchica docente-alunno, ma in una “situazione di orizzontalità tra pari” e in forza degli argomenti. I bambini apprendono lavorando e discutendo insieme e il docente funge da guida discreta. “Tu sei lì – argomenta Pontecorvo – e ci sei per metterti in gioco, al fine di favorire la circolarità dell’apprendimento o della relazione, più in generale, con l’altro, appunto”. La scuola è il contesto sociale di apprendimento in cui avviene la condivisione dei saperi e la costruzione dei significati. 

Ma la possibilità di scambio non esiste se non c’è il silenzio. Altro nodo concettuale. Basti pensare alla musica. Allo stesso modo senza la pausa di uno degli interlocutori, non si dà modo all’altro di esprimersi, non esiste dialogo. Rossi-Doria definisce il silenzio una limitazione di sé per poter incontrare l’altro. Un’abitudine, quella all’ascolto, che dovrebbe essere insegnata ai docenti e da questi agli alunni. 

E poi c’è la questione della “confusione” e della separatezza con e dall’altro. Sono le due direzioni che può prendere un rapporto. Tra uomo e donna, tra insegnante e allievo. “O ti fondi completamente con l’altro o trovi le vie di uno sviluppo”. Fusione, simbiosi significa mancanza di pause, di silenzio, di ascolto, di dialogo. Separazione implica crescita, relazione, definizione di se stessi e dell’altro. “La confusione – sottolinea Pontecorvo nel libro – è l’impossibilità di trovare il proprio modo di essere”. E aggiunge: “A me pare che questo rischio, in effetti, sia presente. Anche per la pressione dei media, del mercato, di tendenze e forze fortemente omologanti”. La spinta alla separazione invece è dovuta alle diversità e permette l’espressione delle peculiarità di ognuno. A volte può generare conflitti, ma è essenziale per stabilire la propria identità, anche quando gli altri ci pongono dei limiti. In ambito educativo ad esempio contrastare i bambini, le loro posizioni, significa aiutarli a dare corpo ai propri pensieri, a sviluppare argomentazioni utili a sostenere le proprie idee. 

La lunga conversazione di Rossi-Doria con Clotilde Pontecorvo, avvenuta nel 2010, è frutto di molteplici disquisizioni durante le quali allievo e maestra discutono, ragionano, riprendono tematiche già trattate per indagare il significato plurimo della relazione con l’altro. Un rapporto che si fonda sull’incontro e sul dialogo, come del resto si intuisce (anche nella forma) fin dalle prime pagine del libro.   

Monica Panetto

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