SOCIETÀ

Ne uccide più la lingua che la spada

Nei giorni di dubbio, nei giorni di penose riflessioni sui destini della mia patria, tu sola sei il mio appoggio e il mio sostegno, o grande, possente, veritiera e libera lingua russa! Come, senza di te, non cadere nella disperazione, vedendo ciò che avviene in patria! Ma è impossibile credere che una lingua simile non sia stata data a un grande popolo!

Lingua e nazione, lingua e politica - la storia d'Europa è lì a ricordarcelo - non hanno quasi mai rapporti lineari. Basta pensare, con il 150° dell'Unità appena trascorso, al ruolo della lingua nelle rivendicazioni dei patrioti durante i processi di unificazione nazionale, o alla diaspora, nel corso dell'Ottocento e del Novecento, di tanti intellettuali e perseguitati che nell'esilio mantennero proprio nella lingua il legame alle propria radici – come Foscolo e Mazzini, Brecht o Hikmet. E come Turgenev, l'autore delle parole riportate sopra, che fu lo scrittore russo emigrato per eccellenza del XIX secolo. 

Che ami Ivan Turgenev anche Vladimir Žirinovskij, il  vicepresidente della Duma e leader della Liberal'no-Demokratičeskaja Partija Rossii (il Partito Liberal-Democratico di Russia, una formazione politica della destra ultranazionalista)? Difficile, a giudicare dall'intervento a gamba tesa fatto nel fervido dibattito linguistico che caratterizza la Russia nel post-dissoluzione dell'Unione Sovietica: la richiesta di abolizione di jery (ы), vocale centrale retroflessa caratteristica della pronuncia slava orientale. Per Žirinovskij "una lettera disgustosa, una marca di inciviltà", arrivata in Russia a causa dei mongoli. E ancora: "Le bestie parlano così..." "Per questo non siamo amati in Europa". Pure provocazioni, venata di una persistente patina asiofobica. Ma la marginale grossolanità delle dichiarazioni di Žirinovskij ha il merito di scoperchiare il vaso di Pandora sullo spasmodico bisogno di identificazione tra popolo e lingua nei paesi dell'ex blocco sovietico. 

Disintegratasi l'unità formale dello stato centrale, ogni elemento in grado di aggregare un popolo può entrare a far parte del bagaglio della coscienza nazionale e, se necessario, essere utilizzato come arma di parte nei rapporti bilaterali. Esemplificativo è quanto succede nel drammatico scontro attuale tra Russia ed Ucraina, una battaglia combattuta su più fronti. Leggere una guerra sul campo linguistico equivale, spesso, a coglierne i significati più profondi. 

Non è un caso che il nuovo governo autocostituito dopo EvroMajdan abbia annunciato la cancellazione dell'insegnamento del russo come seconda lingua obbligatoria nelle scuole superiori ucraine e che questa, sopra ogni cosa, sia stata la molla innescatrice della risposta militare. Viviana Nosilia, ricercatrice di lingua e letteratura russa all'Università di Padova, non ha dubbi al riguardo: "La difesa di una popolazione che parla una determinata lingua, ovvero il russo, è stata usata sicuramente come pretesto. Di fatto non esistevano persecuzioni nei confronti dei russofoni. Il senso del pericolo è stato creato ad arte: nella Crimea esiste una forte influenza dei mass media russi"

Cosa, allora, ha giustificato il provvedimento del governo ucraino? "Dobbiamo capire - prosegue Nosilia - che gli ucraini hanno intrapreso misure per difendere la loro lingua proprio perché temevano che essa non si sarebbe mai svincolata dalla propria atavica condizione di subalternità. L’ucraino era riconosciuto come lingua di stato dell’Ucraina anche sotto l’URSS, ma la coesistenza col russo – avvertito come lingua della cultura, della letteratura, dell’ambiente di lavoro, dell’istruzione, della comunità scientifica – ne limitava fortemente lo sviluppo".

Un tentativo radicale di proteggersi da una "seconda invasione" linguistica, dunque. Il discorso si complica se si pensa che, nella cerchia dell'intelligencija russa più intransigente, l’ucraino non è nemmeno considerato come una vera e propria lingua a sé stante, bensì come un dialetto rurale fortemente contaminato dall’influsso polacco. "L'area in cui era parlato l'idioma ucraino – o 'piccolo russo', secondo l'espressione in uso nell'Ottocento – era nel passato più vasta che quella attuale, arrivando sino alle aree rurali dei governatorati di Kursk e Voronež, così pure come era diffuso nella Novaja Rossija e nel Kuban’", spiega Andrea Franco, dottorando in storia all’Università di Udine. "Al contrario, le élites erano state sostanzialmente russificate, specie al tempo di Pietro I e di Caterina II, nel nome della centralizzazione e della razionalità amministrativa"

La limitata tolleranza del potere dominante russo verso l’ucraino, di molto mitigata durante i primi anni della rivoluzione, tornò a farsi pressante nell’era delle purghe staliniane, continua Franco: "Nei confronti dei vertici dell'intellettualità si ebbe la cosiddetta 'Rinascita fucilata': l'eliminazione, durante il Terrore, dell'intelligencija ucraina. A un livello di massa, si favorì l'immissione di molti russi nel Donbass e nelle industrie dell'est del paese. Gli stessi ucraini che si inurbavano, spesso finivano con l'optare per la lingua russa, considerata solitamente più prestigiosa". 

Si arriva così all’attuale situazione di pronunciata instabilità, con il crollo dell’URSS e quindi le aggressive politiche di respiro internazionale dell’era putiniana: "Putin ha reso d'attualità la prospettiva eurasiatica, espressione di una rinnovata "grandeur” che si realizza anche attraverso la difesa linguistica dei russi al di fuori della Russia, dopo la caduta dell'Urss – 'la più grande sventura della storia russa', secondo Putin, e non a caso – ammontanti a svariati milioni". Il che rende da un lato apertamente incomprensibile, dall’altro sottilmente significativa l’affermazione di Žirinovskij: il cambio linguistico come cambio di rotta politica e, conseguentemente, come cambiamento nelle relazioni con i paesi satellite d'un tempo.

La delicatezza degli equilibri in gioco è evidente. Non si tratta di un semplice scontro tra una fazione filoeuropeista ed un'altra filorussa – tanto più che, come sottolinea Nosilia "In Crimea ci sono russofoni che si riconoscono cittadini ucraini di lingua russa e che hanno accettato senza riserve l’esistenza di una nuova lingua". Franco sintetizza il problema in una questione strettamente politica: «Deve prevalere, in termini di diritto, il criterio della sovranità dello Stato, oppure l'ingerenza russa è resa lecita ai fini della tutela di questi soggetti?". 

Non può, qui, che tornare in mente la celeberrima Bosanski lonac, il “pentolone bosniaco” nel quale Serbi e Croati, cattolici, ortodossi e mussulmani, sino al giorno prima fratelli di lingua, politica e cultura, presero le armi l’uno contro l’altro. Le conseguenze furono agghiaccianti: quasi centomila morti nel quadriennio 1991-1995 (secondo le statistiche del Centro di ricerca e documentazione di Sarajevo), la dissoluzione della repubblica socialista simbolo della “terza via”, un’incompromissibile presa di distanza tra le varie etnie che giunse fino al punto di differenziare, innaturalmente, in lingue nazionali la lingua comune. 

Fu, anche allora, un purismo linguistico tutto strumentale ai nazionalismi a mantenere alta la tensione fra i paesi confinanti: serbo e croato, due varianti dello stesso idioma slavo meridionale marginalmente distinguibili per questioni di lunghezza vocalica e costruzione sintattica, furono forzatamente separate e distinte come organismi a sé stanti. La controversia prosegue ancor oggi, quando anche il montenegrino (dopo un recente referendum del 2007) e il macedone si apprestano ad acquistare dignità di lingua autonoma.

"Si è arrivati così alla creazione degli Stati nazionali, etnicamente puri, e per determinare questo coefficiente di “purezza” si è voluto utilizzare anche la lingua. Questo è un errore madornale: della volontà di un popolo e della sua autodeterminazione certo non decide soltanto la lingua che quel popolo parla. Perché uno Stato dovrebbe essere per forza monoetnico e monolinguistico?", si chiede, in conclusione, Nosilia. Occorrerebbe, come primo atto, promulgare una migliore e più efficace legislazione sulla lingua, attualmente in lavorazione alla Verchovna Rada, che non mortifichi la dignità nazionale in direzione filorussa o filoeuropeista. Un compito immane, che difficilmente troverà presto chi possa portarlo a termine.

Marco Biasio

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