SOCIETÀ
Russia e Ucraina dopo l'Urss: dal sogno di uno spazio economico comune all’invasione
8 dicembre 1991: i rappresentanti di Russia, Ucraina e Bielorussia firmano l'accordo di Belaveža, che dichiara dissolta l'Unione Sovietica e costituisce la Comunità degli Stati Indipendenti
Il 26 dicembre 1991, con un colpo di penna e una bandiera ammainata, il più grande Stato del mondo cessò di esistere. L'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, nata dal sogno di una società più equa e giusta, si dissolse in un mosaico di Stati indipendenti, lasciando dietro di sé un’eredità complessa e contraddittoria.
Trentatré anni dopo le cicatrici di quel crollo sono riemerse con tutta la loro forza, intrecciandosi con una guerra che sta ridisegnando le dinamiche regionali e mondiali. Per comprendere le radici di questo conflitto oggi possiamo tornare – grazie a una serie di documenti provenienti dagli archivi russi, ucraini e lettoni – a quando le promesse di collaborazione tra Russia e Ucraina sembravano ancora possibili. Anche se i semi di nuove tensioni erano già stati gettati.
L’URSS, ufficialmente costituita nel 1922 dall’unione di Russia, Ucraina, Bielorussia e Transcaucasia, si fondava sull’obiettivo di costruire una società comunista: priva di Stato e organi repressivi, senza classi sociali e sfruttamento né proprietà privata, mercato o denaro.
Quando nel 1991 l’Unione si sciolse, la decisione — presa dalle dirigenze delle principali Repubbliche — non fu il risultato di una sconfitta militare, di un disastro naturale o di una conquista straniera. Avvenne invece “principalmente [per] ragioni politiche”, come sintetizzava un documento del neonato Istituto scientifico di ricerca sull’amministrazione, filiale ucraina dell’ex istituzione sovietica con sede centrale a Mosca.
Sottolineare le cause politiche del crollo (per lo più pacifico) dell’URSS non significa ignorare la grave crisi economica che attraversava l’Unione. A livello economico, uno dei principali nodi irrisolti riguardava la relazione tra Stato e imprese. Nel sistema cosiddetto “pianificato” i mezzi di produzione erano proprietà pubblica, i prezzi erano fissi e materiali e carburanti venivano forniti dallo Stato. L’autorità suprema spettava alla dirigenza del Partito comunista, che decideva le direttrici dello sviluppo economico, poi trasformate in obiettivi di piano dal Comitato di pianificazione dopo mesi di calcoli e discussioni con ministeri e imprese.
Secondo l’ideologia comunista le imprese avrebbero dovuto puntare a ottenere quote di piano alte, a produrre in maniera sempre più efficiente e a modernizzare continuamente le loro tecniche. In realtà, visto che i pianificatori potevano a malapena controllare i dati sulla produzione lorda, era sulla base di questo indicatore tanto generale quanto fuorviante che venivano elargiti bonus economici per il raggiungimento delle quote. Spesso quindi le imprese mentivano sulle loro capacità produttive per ottener basse quote di piano, domandavano materiali in eccesso rispetto alle loro necessità e producevano in maniera totalmente inefficiente, sperperando materiali.
Anche quando alcune imprese evitavano pratiche opportunistiche, i comportamenti scorretti di altre vanificavano i loro sforzi. Una rinomata fabbrica di mobili di Riga a fine degli anni ’60 si trovò in una situazione critica: le ferrovie baltiche non fornivano abbastanza vagoni per spedire i prodotti, oppure li consegnavano solo all’ultima scadenza utile. La fabbrica, insieme ad altre imprese, rischiò quindi di dover sospendere la produzione, poiché fu costretta a utilizzare gli spazi accanto ai macchinari come deposito per i prodotti finiti.
Nel 1985fu eletto Segretario Generale del Partito Comunista Mikhail Gorbačev, primo e unico leader sovietico nato dopo il 1917. Inizialmente proseguì sulla linea tracciata dal suo mentore Yurij Andropov, il quale aveva già avviato timidi tentativi di riforma, concentrati sul rafforzamento della disciplina, la lotta all’alcolismo e il miglioramento della produttività del lavoro, in linea con le fallimentari riforme succedutesi dal 1965.
Successivamente, Gorbačev prese una direzione radicalmente diversa, che però finì per distruggere il sistema sovietico. Sebbene l’economia dell’URSS fosse in crisi e stagnazione da tempo, la crisi terminale dello Stato, del sistema e dell’economia fu il risultato della perestroika, non la sua causa. Gorbačev smantellò l’economia centralizzata, abolì la dittatura del Partito, eliminò l’obbligatorietà del credo marxista-leninista e allentò i meccanismi di controllo da parte del potere centrale sulle Repubbliche e sulla società tutta. Tuttavia, non riuscì a sostituire questi pilastri fondamentali con nuovi meccanismi funzionanti. Gli effetti disastrosi dell’incidente di Černobyl e il terremoto che colpì l’Armenia aggravarono ulteriormente la situazione.
Un obiettivo cruciale della perestroika era ridefinire completamente il rapporto tra Stato e imprese, liberando queste ultime dal controllo centrale, anche in relazione al commercio estero. Tale intento è evidente in un documento del 28 aprile 1991, redatto dalla filiale ucraina dell’Istituto scientifico di ricerca per la pianificazione e le normative. Il testo, riferendosi alle ultime direttive di Mosca, affermava:
“In base a questi documenti, tutti i tipi di imprese, cooperative e aziende hanno ricevuto il diritto di effettuare direttamente operazioni di esportazione-importazione. Si sta sviluppando un programma per il decentramento dell’attività economica estera, con il completo trasferimento delle operazioni commerciali al livello delle imprese, al fine di aumentarne l’indipendenza commerciale”.
Si trattava di una rivoluzione: la fine del sistema pianificato, che però avrebbe aperto la strada a una crisi spaventosa. Quando, a fine 1991, i presidenti di Russia e Ucraina, insieme al primo ministro bielorusso, decretarono la fondazione della Comunità degli Stati Indipendenti (CSI), implicitamente abolendo l’URSS, accusarono Gorbačev di una “politica miope”. In una dichiarazione congiunta, attribuirono a tali politiche la responsabilità di aver “portato a una profonda crisi economica e politica, al crollo della produzione e a un catastrofico declino degli standard di vita di praticamente tutti gli strati della società”.
Gorbačev, ancora formalmente Presidente dell’URSS, avrebbe potuto reagire al crollo dell’Unione con arresti, l’invio di contingenti militari nei centri nevralgici o, in ultima istanza, replicando scenari simili a quello di Piazza Tiananmen. Non lo fece, perché andava contro la sua natura. Gorbačev e molti dei suoi collaboratori, ancora fedeli all’idea di un’URSS riformabile in chiave democratica ma ancorata a valori sovietici fondamentali, rappresentavano il miglior prodotto di quello che Andrea Graziosi ha definito l’“umanesimo sovietico”. “Ho sostenuto fermamente l'indipendenza, l'autogoverno delle nazioni, la sovranità delle repubbliche, ma al contempo la preservazione dello stato dell’unione, l’unità del Paese. Gli eventi sono andati diversamente. Ha prevalso la politica di disgregazione, con cui non posso essere d’accordo” — così Gorbačev si congedò dalla scena storica.
Poco più di trent’anni fa, le prospettive di collaborazione economica tra Russia e Ucraina, le due maggiori ex Repubbliche sovietiche per popolazione, sembravano promettenti. La Russia contava allora 148,3 milioni di abitanti e l’Ucraina 52 milioni.
Il già citato Istituto scientifico di ricerca dell’amministrazione suggerì nel 1992 che:
“Il crollo dell’Unione sovietica come Stato unitario e l’emergere di un gruppo di Stati sovrani non coincide con la completa dissoluzione dell’interdipendenza economica sviluppatasi in decenni. La necessità di evitare il collasso economico, superare la crisi e stabilizzare l’economia con perdite minime rende inevitabile una cooperazione economica, in una forma o nell’altra. Quasi tutte le repubbliche indipendenti sostengono l'idea di preservare uno spazio economico comune […] La transizione da un unico complesso economico nazionale a una comunità di Stati indipendenti […] crea le condizioni per relazioni economiche più efficaci”.
Tuttavia, il Presidente russo Boris El’cin non riuscì a impedire che la crisi economica dell’URSS si trasformasse in un cataclisma. Alle caotiche riforme della perestroika sostituì la “terapia shock”: una transizione fulminea al capitalismo, che tra il 1992 e il 1998 portò al crollo del 40% del PIL russo. L’implosione del sistema di welfare, previdenziale e sanitario causò almeno 3,4 milioni di decessi per eccesso di mortalità. Oggi, la popolazione russa è di appena 144 milioni, quattro milioni in meno rispetto al 1991.
Sul piano politico, El’cin abbandonò il percorso riformista dell’era gorbačeviana, preferendo usare la forza. Nel 1993 inviò i carri armati a bombardare il parlamento, risolvendo con la violenza una crisi costituzionale in cui la Duma, allora Soviet Supremo, cercò di rimuoverlo e fermare la “terapia shock”. Nel 1996, per garantirsi la rielezione, portò a termine la privatizzazione delle industrie nazionali, svendute agli oligarchi in cambio di fondi immediati, ottenendo inoltre significativi finanziamenti dagli Stati Uniti.
El’cin abbandonò anche l’umanesimo sovietico per imporsi con il pugno di ferro. Rifiutò di negoziare con le autorità autonomiste della Cecenia, invadendo la regione e causando la morte di oltre 80.000 civili, più del 7% della popolazione. Non riuscì, o non volle, rompere con la visione plurisecolare dello Stato russo come esteso almeno ai confini dell’URSS e indivisibile. Questa concezione portò la leadership russa post-sovietica a non accettare mai del tutto che il crollo dell’Unione, cui loro stessi avevano contribuito, implicasse una reale e piena indipendenza delle ex Repubbliche sovietiche.
Così, mentre le relazioni commerciali tra Russia e Ucraina fiorivano, crescevano anche frutti avvelenati.
Lo “spazio economico comune” della CSI non si concretizzò mai completamente, ma vari accordi di integrazione favorirono gli scambi all’interno dello spazio post-sovietico. Le relazioni tra Ucraina e Russia prosperarono nei settori aerospaziale, della difesa, degli idrocarburi e dei componenti industriali di precisione. Nel 2013, il 23,8% delle esportazioni ucraine era diretto in Russia, mentre il 30% delle importazioni di Kyiv proveniva da Mosca.
Già alla fine degli anni ’90, due esperti occidentali come James Sherr e Steven Main (Russian and Ukrainian Perception of Events in Yugoslavia, Conflict Studies Research Center, F64, 1999) avevano però avvertito che la nuova crisi economica che stava investendo la Russia, combinata con il deterioramento dei rapporti tra Mosca e Washington, avrebbe potuto favorire l’ascesa in Russia di forze nazional-revansciste. In tal caso, una leadership sempre più ostile all’Occidente avrebbe potuto perseguire un progetto espansionista, mirato a rafforzare un “nucleo slavo” più grande e più potente, minacciando l’indipendenza di molte ex Repubbliche sovietiche, con l’Ucraina in prima linea. Così è stato.
L’invasione russa del febbraio 2022 ha segnato la fine del periodo post-sovietico, un’epoca definita principalmente dal crollo dell’URSS e dalle sue conseguenze. Le dinamiche interne alla regione ex sovietica saranno ora plasmate dai lasciti di una guerra che, dopo oltre 1.000 giorni, ha tristemente ridato un senso contemporaneo all’espressione “terre di sangue”, coniata dallo storico Timothy Snyder per descrivere ampie porzioni dell’Europa centro-orientale negli anni ‘30 e ‘40.
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I documenti citati nell’articolo provengono dall’Archivio di stato russo per l’economia (RGAE, Mosca), dall’Archivio centrale di Stato degli organi supremi di potere e di governo dell’Ucraina (TsDAVO, Kyiv) e dall’Archivio storico di stato della Lettonia (LNA, Riga). Le ricerche sono state svolte nell’ambito del progetto “EAST-ECON - Ties Across Divides: New Perspectives on Eastern European Economic Relations from the late Soviet period to the post-communist era (1980s-1990s)”, NextGenerationEU Funding, C93C22007700006 (CUP).