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È questa l’epoca dei “falchi”, degli intransigenti, degli interventisti. Di quei capi di governo che privilegiano l’uso della forza militare come strumento maestro per raggiungere i propri obiettivi, spesso anteponendo la giustificazione della “sicurezza nazionale”, senza che la comunità internazionale riesca in alcun modo a intervenire per prevenire, per disinnescare. Mai come oggi, ottant’anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, le fragilità del sistema diplomatico globale sono state così evidenti: risoluzioni ignorate, organismi disconosciuti (anche i più autorevoli) e attaccati politicamente da una parte o dall’altra, come se la “sovranazionalità” non fosse più un dogma, come se la definizione di ciò che è giusto e cosa sbagliato non fosse più una questione di regole morali condivise (per dirne una: è ancora vietato bombardare civili inermi), ma di competenza dei singoli governi che, a seconda delle stagioni politiche, guidano le varie nazioni. E se la diplomazia ha le armi spuntate, gli eserciti dimostrano invece di averle ben affilate: e di dettare nuove (in realtà secolari) regole per risolvere le questioni tra Stati, gettando al vento quelle stabilite, di comune accordo, nel 1945, quando l’orrore per quanto accaduto era ancora vivo. “Negli ultimi tre anni l’idea che i paesi non vadano in guerra è scomparsa“, sostiene Samir Puri, direttore del Centro per la Governance Globale e la Sicurezza del centro studi britannico Chatham House. “L’invasione su vasta scala dell’Ucraina da parte della Russia è iniziata nel 2022 e continua con attacchi quotidiani di missili e droni in mezzo a sforzi di mediazione non convincenti da parte degli Stati Uniti. Israele sta ora pianificando di impadronirsi di Gaza nella sua rinnovata offensiva contro Hamas, poiché Donald Trump sembra aver perso interesse nel cercare di porre fine a una guerra in cui sono stati uccisi più di 50mila palestinesi.

Paesi distanti migliaia di chilometri si sono attaccati a vicenda. L’Iran ha lanciato due volte complessi attacchi a lungo raggio contro Israele nel 2024: siamo in un mondo in cui rivali e nemici sono sempre più disposti a lanciarsi missili l’uno contro l’altro”.
Attualmente nel mondo sono attivi più di 50 conflitti armati (le stime sul punto divergono, ma è comunque il numero più alto registrato dalla fine della Seconda Guerra Mondiale) che coinvolgono direttamente o indirettamente oltre 90 Paesi. L’ultimo è deflagrato improvvisamente la settimana scorsa e ha visto coinvolti India e Pakistan (entrambe potenze nucleari, dunque con un coefficiente di pericolosità altissimo), lungo il confine storicamente conteso, non soltanto per questioni identitarie e religiose, nella regione del Kashmir (l’area è cruciale per il controllo delle risorse idriche). Quattro giorni di scontri e di tensioni, con lancio di missili e droni, interrotti domenica scorsa da un improvviso “cessate il fuoco”: con il presidente americano Donald Trump che si è subito intestato il merito di aver convinto i leader dei due paesi a “usare il buon senso”. L’ultimo report Conflict Index, pubblicato alla fine dello scorso anno dall’Armed Conflict Location & Events Dataset(ACLED), ha rilevato un aumento del 12% degli scontri armati nel 2023 rispetto al 2022 e di oltre il 40% negli ultimi quattro anni. “La violenza internazionale e di stato rappresenta una quota crescente dei tassi di conflitto complessivi”, è scritto nel report. “I tassi di eventi di conflitto sono cresciuti di oltre il 25% nel 2024 rispetto al 2023, e gran parte di ciò è dovuto al conflitto emergente tra gli Stati e gli stretti affiliati degli Stati in tutto il Medio Oriente”. Le situazioni più drammatiche, stando al solo conteggio delle vittime stimate nel 2024, sono in Ucraina e a Gaza; ma ci sono anche le guerre civili in Myanmar, in Sudan, in Etiopia; ci sono i gruppi terroristici che seminano terrore e morte in Nigeria e in Burkina Faso, come in Mali, nella Repubblica Democratica del Congo, in Camerun, nel Niger. E la piaga di Haiti, con gli scontri senza fine tra bande criminali.

Le violenze ad Haiti. Foto: Reuters
Le tragiche conseguenze dei conflitti
Ma queste guerre non producono soltanto vittime e feriti: portano sofferenze, sfollamenti, crisi alimentari e sanitarie, che si sommano a quelle ambientali derivanti dal cambiamento climatico. Provocano shock economici (chiusura di attività, blocco degli investimenti, fuga di capitali) che spesso si traducono in crisi a lungo termine che possono ostacolare lo sviluppo per generazioni. Un altro istituto di ricerca, l’Emergency Watchlist dell’International Rescue Committee (IRC), ha stilato una classifica delle 10 nazioni che nel 2025 avranno maggiori probabilità di affrontare un’escalation delle crisi umanitarie: “Nonostante rappresentino soltanto l’11% della popolazione mondiale - scrive l’IRC -, questi paesi rappresentano uno sproporzionato 82% delle persone che necessitano di aiuti umanitari”. In cima alla classifica c’è il Sudan, definita “la più grande crisi umanitaria mai registrata e la più grande e veloce crisi di sfollamento del mondo”, con oltre 30 milioni di persone che hanno, o meglio avrebbero, bisogno di assistenza. Poi la devastazione di Gaza ad opera dell’esercito di Israele, che oltre a insistere con il devastante bombardamento della Striscia si ostina a mantenere un blocco quasi totale sulla consegna degli aiuti (cibo, acqua, cure mediche) “contravvenendo al rispetto dei principi umanitari fondamentali”, come rimarca l’Onu. Un tempo il “faro” era il diritto internazionale umanitario, sancito dalle convenzioni di Ginevra, che valeva come controllo sui conflitti armati: con le parti in guerra tenute ad aderire al principio di distinzione tra militari e civili e al principio di proporzionalità (gli attacchi contro obiettivi militari che causano un numero eccessivo di vittime civili rispetto al vantaggio ottenuto sono considerati, in teoria, un crimine di guerra). Sembra preistoria alla luce di quanto sta accadendo quotidianamente, davanti ai nostri occhi.
Al terzo posto, in questa classifica delle tragedie umanitarie, c’è il letale mix tra guerra civile e disastri naturali in Myanmar: il solo terremoto del 28 marzo scorso ha provocato quasi 4mila morti, con 55.000 case distrutte in diverse regioni, ma questo non ha fermato gli attacchi contro i civili. Ma c’è anche un drammatico problema di disponibilità finanziarie: secondo il Global Humanitarian Overview (GHO), stilato dall’Ufficio delle Nazioni Unite per gli Affari Umanitari (OCHA), il fabbisogno di finanziamento globale per il 2025 dovrebbe essere di oltre 46 miliardi di dollari per assistere, concretamente, 188 milioni di persone bisognose in 72 nazioni. Ma i finanziamenti effettivi superano di poco i 4 miliardi di dollari, pari al 9% del necessario: il che porta a un drastico ridimensionamento delle operazioni umanitarie.

Esuli del Sudan, scappati dai conflitti.
La nuova prevalenza del disordine globale
Dunque a questo siamo: a una forsennata corsa al riarmo (anche in Europa, come se fosse “normale”) perché “così fan tutti” in un fiorire di sfide tecnologiche e ibride sempre più sofisticate, tra aggressioni e minacce di annessioni, perché “viviamo in un momento così importante e pericoloso”, per usare le parole della presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen. Ma è l’attuale disordine globale ad aver stravolto i rapporti internazionali, ribaltando la grammatica della diplomazia, togliendo spazi e parole ai “mediatori”. Spingendo anche l’attuale Papa Leone XIV a riprendere le parole del suo predecessore, Francesco, parlando di “terza guerra mondiale a pezzi” e lanciando un appello ai potenti del mondo: “Mai più guerra”. Non sarà ascoltato, come il suo predecessore: ma questo non toglie forza al gesto, al messaggio.
“ Disarmiamo le parole per disarmare la Terra Papa Leone XIV
Scriveva pochi giorni fa Othon A. Leon, direttore del Canadian Centre for Strategic Studies di Montreal, in un intervento pubblicato dall’autorevole rivista Modern Diplomacy: “L’8 maggio 1945 segnò non solo la sconfitta della Germania nazista, ma anche la nascita di un nuovo ordine internazionale”, ricorda Leon. “Nella loro incessante ricerca per prevenire il ripetersi di tale devastazione, le potenze alleate vittoriose cercarono di costruire un'architettura diplomatica radicata nella cooperazione, nell'interdipendenza economica e nella sicurezza collettiva. Tuttavia, dopo ottant’anni di riflessione, l’ordine del dopoguerra non è riuscito ad affrontare le profonde tensioni strutturali che continuavano a plasmare gli affari globali. Mentre ha impedito un’altra guerra mondiale, non è riuscito a contenere o risolvere le numerose piccole guerre e le crisi di lunga data che sono scoppiate sulla sua scia. La cattiva gestione del processo di decolonizzazione, l’ostinazione delle ostilità della Guerra Fredda, l’escalation dei conflitti per procura nel Sud del mondo e l’incapacità di prevenire o mitigare la frammentazione del mondo post-sovietico evidenziano i limiti di questo ordine. Il mondo di oggi, caratterizzato da disuguaglianze radicate, sfiducia strategica, arretramento democratico e violenza persistente, è il risultato di questi fallimenti diplomatici”.
La questione diventa ancor più complessa se si tiene conto dell’aspetto economico della vicenda, della guerra intesa come “straordinario business” per l’industria bellica (a puro titolo di esempio: secondo uno studio del 2024 di Greenpeace Italia i profitti delle prime 10 imprese esportatrici di armamenti dall’Italia si sono moltiplicati in due anni, sia in termini di utile netto, con un aumento del 45%, sia come flusso di cassa disponibile, con un balzo del 175%). Scriveva pochi mesi fa l’associazione Massachusetts Peace Action(MAPA): “Cosa dovremmo pensare di questa apparente normalizzazione della guerra e del suo rapporto con la redditività delle imprese? Gli interessi economici sia della Russia sia degli Stati Uniti, ad esempio, entrambi importanti fornitori di armi, hanno beneficiato del conflitto in corso nella guerra in Ucraina. È assurdo suggerire che, finché questo conflitto continuerà, le entità aziendali di entrambi i paesi continueranno a godere di una miniera d'oro per gli affari non solo in termini di costruzione e fornitura di armi, ma anche di ricostruzione delle infrastrutture gravemente danneggiate del paese? L’applicazione di questo modello alla nozione di guerre eterne in generale, e all’Ucraina in particolare, si collega facilmente a possibili secondi fini geopolitici. Se questo conflitto dovesse essere risolto diplomaticamente, gli appaltatori della difesa di entrambe le parti perderebbero il loro “gravy train” (treno della cuccagna). Negli Stati Uniti, data la smisurata influenza lobbystica a Washington, non sorprende che la guerra sia continuata così a lungo”.