SOCIETÀ
Le emissioni del settore militare aggravano le cause climatiche dei conflitti

Alcune delle guerre oggi in corso nel mondo sono conflitti per le risorse: in certe zone come il Darfur o la Siria, l’acqua si fa sempre più scarsa con l’aumento delle temperature globali, che a nord stanno sciogliendo i ghiacci dell’Artico, liberando nuove rotte commerciali e offrendo l’accesso a depositi minerari e di idrocarburi che le potenze del mondo si stanno contendendo, anche con la forza.
L’assurdità delle guerre risiede anche nel fatto che attrezzarsi per combatterle aumenta le emissioni di gas serra, che aggravando il riscaldamento globale inaspriscono le cause stesse dei conflitti.
È questo quanto emerge da uno studio condotto dal Conflict and Environment Observatory, che ha stimato quante emissioni di anidride carbonica produrrebbe l’aumento della spesa militare dei soli Paesi della Nato (North Atlantic Treaty Organization) in programma per i prossimi anni. Senza contare gli Stati Uniti, si aggiungerebbero fino a quasi 200 milioni di tonnellate di CO2 equivalete in atmosfera, cioè quanto emette ogni anno un Paese come il Pakistan.
Il rafforzamento degli eserciti infatti spingerebbe la produzione di acciaio e alluminio, due dei settori industriali più impattanti e le cui emissioni risultano difficili da abbattere (hard-to-abate). Inoltre i mezzi militari sono principalmente alimentati da diesel o kerosene e risulta emissiva anche la filiera della gestione dei rifiuti dell’intero settore.
Sebbene molti dati non siano disponibili per ragioni di segretezza, ad oggi si stima che il settore militare nel mondo contribuisca con il 5,5% delle emissioni globali. Se fosse un Paese sarebbe il quarto emettitore al mondo.
Lo studio
L’analisi dell’osservatorio si è concentrata sui 31 (di 32) Paesi membri della Nato che pianificano di aumentare la percentuale di Pil destinata alla difesa, proprio in virtù del fatto che gli Stati Uniti di Trump hanno dichiarato di non volersi più sobbarcare la maggior parte del sostegno militare all’Europa.
Nel 2019 il Vecchio Continente spendeva l’1,5% del proprio Pil in difesa, percentuale che è salita quasi al 2% nel 2024, arrivando a circa 326 miliardi di euro. Il piano ReArm Europe presentato a marzo intende spendere altri 800 miliardi di euro fino al 2030: con questo apporto l’Europa raggiungerebbe il 3,5% del Pil destinato alla difesa.
Il gruppo internazionale di ricercatori che ha condotto lo studio ha assunto che anche gli altri membri non europei della Nato (Canada, Regno Unito, Turchia e Norvegia) arriveranno a un analogo aumento del 2% della spesa militare nel 2030, rispetto al 2019.
“Un paper recente sostiene che un aumento della spesa militare di un punto percentuale di Pil fa salire le emissioni nazionali di un valore compreso tra lo 0,9% e il 2%” si legge. Considerando che i 31 Paesi producono ogni anno quasi 5 miliardi di tonnellate di CO2 equivalente, una crescita della spesa militare del 2% di Pil si tradurrebbe in una produzione annuale aggiuntiva di un valore compreso tra gli 87 e i 194 milioni di tonnellate di CO2 eq.
Gli studiosi provano inoltre a quantificare il danno economico che ne conseguirebbe, facendo riferimento a un indicatore, il costo sociale del carbonio (SCC), che l’amministrazione Trump ha scelto di smettere di considerare.
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“Gli studi più recenti stimano l’SCC attorno ai 1.347 dollari per tonnellata di CO2 eq emessa”, riportano gli autori. Di conseguenza, l’effetto collaterale provocato dall’aumento di spesa della Nato sarebbe tra i 119 e i 264 miliardi di dollari annui, una cifra che il mondo intero dovrebbe erogare per ripagare i danni causati da eventi estremi come siccità, alluvioni e impatti sanitari, che in alcuni casi possono aggravare conflitti già in corso o alimentarne di nuovi.
La ragione per cui lo studio si è concentrato solo sui Paesi della Nato è che sono gli unici che forniscono dati sufficienti a stimare le emissioni militari. Infatti, “gli Stati ad oggi non sono obbligati a riportare per intero le emissioni militari nel rapporto nazionale dell’UNFCCC”, la convenzione delle Nazioni Unite per il cambiamento climatico.
Mezzo mondo in guerra
Oggi la spesa militare globale ha raggiunto i 2.700 miliardi di dollari l’anno e nel 2023 è aumentata in 108 Stati. Secondo il Global Peace Index oggi sono 92 i Paesi coinvolti in un totale di 56 conflitti, il numero più altro dalla seconda guerra mondiale. Le guerre in Ucraina e a Gaza pesano per circa i tre quarti dei 162.000 morti l’anno (dato del 2023).
Gli Stati Uniti, che dal dopoguerra non hanno mai speso meno del 3% del proprio Pil, arrivano a spendere circa 916 miliardi di dollari l’anno nel settore militare, la Russia spende circa 145 miliardi, mentre i numeri della Cina sono difficili da stimare.
Di recente il governo britannico ha annunciato che ridurrà le spese in cooperazione internazionale di un valore pari allo 0,2% del proprio Pil, per finanziare il settore militare. Misure analoghe sono state intraprese da Belgio, Francia e Olanda.
Naturalmente non sono solo i programmi di riarmo a recare danno al patrimonio e alle risorse ambientali. Secondo l’iniziativa GHG Accounting of War, che periodicamente aggiorna il calcolo delle emissioni prodotte dalle guerre, quella in Ucraina in tre anni ha rilasciato in atmosfera 230 milioni di tonnellate di CO2 eq, circa quanto emettono in un anno Austria, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia insieme.
Oltre alle emissioni ci sono poi i danni agli ecosistemi: dopo ripetuti attacchi, nel giugno 2023 la diga Kakhovka sul fiume Dnipro, qualche centinaio di km a nord del mar Nero, ha ceduto. Sono stati inondati 500.000 ettari di terreno agricolo, sono stati sommersi depositi di carburante che si sono riversati in acqua e il disseccamento del bacino idrico della diga ha fatto riaffiorare i metalli pesanti dei sedimenti del fondale. Probabilmente sono i prodotti di scarto, a partire dagli anni ‘60, delle attività industriali dei poli di Nikopol e Zaporizhzhia.
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Le proposte
Secondo l’analisi del Conflict and Environment Observatory, le emissioni del settore militare potrebbero calare se diminuissero la spesa per la difesa, il numero di conflitti, il numero di militari negli eserciti e il numero di veicoli militari alimentati a combustibili fossili. È pressoché impossibile però che queste condizioni si realizzino nel breve termine, sostengono gli autori. Per quanto paradossale possa sembrare, ritengono che la possibilità più concreta di ridurre le emissioni del settore sia quella di decarbonizzarlo, impiegando combustibili più sostenibili ed elettrificando il più possibile le basi.
“Un recente rapporto dell’Agenzia Europea per la Difesa ha però notato la mancanza di standard green per gli appalti negli eserciti europei” sottolineano gli autori. È anche per questo che il Conflict and Environment Observatory chiede che i governi si impegnino nel riportare in modo affidabile le emissioni del proprio settore militare e che vengano obbligatoriamente incluse nei rapporti che gli Stati devono consegnare all’UNFCCC.
All’ultima Cop 29 di Baku, i Paesi del Sud del mondo chiedevano che il nuovo impegno di finanza climatica globale fissasse l’asticella ad almeno 1.000 miliardi di dollari. L’accordo finale si è però fermato a 300 miliardi. “La spesa militare globale supera i 2.500 miliardi di dollari l’anno” aveva rimarcato il delegato di Panama. “2.500 miliardi per ucciderci l’un l’altro non sono percepiti come una cifra eccessiva, mentre ci viene detto che è irragionevole spendere 1.000 miliardi per salvare vite”.
La prossima Cop 30 di Belem, in Brasile, dovrà fare i conti anche con il fatto che i Paesi industrializzati sembrano più interessati ad aumentare la spesa per la difesa, e con essa le emissioni climalteranti, invece che sostenere la transizione ecologica e l’adattamento al cambiamento climatico nei Paesi in via di sviluppo.