SOCIETÀ

Il costo degli eventi climatici estremi non viene più monitorato negli USA

“Più giovane sei, più alta è la probabilità che vivrai eventi climatici estremi senza precedenti”. Si potrebbero riassumere così i risultati di uno studio estensivo pubblicato su Nature da un gruppo di ricercatori che lavora tra il Politecnico Federale di Zurigo, in Svizzera, e la Vrije Universiteit di Bruxelles, in Belgio.

Ondate di calore, siccità, minore resa agricola, incendi, cicloni tropicali e alluvioni sono destinati ad aumentare di frequenza e di intensità in un pianeta che si scalda rapidamente a causa delle emissioni prodotte principalmente dalla combustione di petrolio, gas e carbone. Le politiche attuali sono insufficienti a mantenere la temperatura globale entro l’aumento di 1,5°C, come vorrebbe l’Accordo di Parigi: ora ci troviamo su una traiettoria che senza interventi più decisi a fine secolo ci porterebbe a +2,7°C rispetto alla temperatura media del 1800.

Le persone nate a Bruxelles nel 1960, ad esempio, nel corso della loro intera vita verranno esposte in media a tre ondate di calore estreme, riporta lo studio. Chi invece è nato nel 2020 nella stessa città sarà esposto in media a 11 ondate di calore, ma questo assumendo che la mitigazione del cambiamento climatico avrà successo e la temperatura non salirà oltre il grado e mezzo. Se invece dovesse raggiungere +2,5°C, il numero medio di ondate di calore a cui verrebbe esposto chi oggi ha 5 anni nella capitale belga salirebbe a 18. Salirebbe invece a 26 con un aumento del riscaldamento globale di 3,5°C.

Disuguaglianze generazionali e geografiche

Lo studio amplia la comparazione tra coorti generazionali anche al resto del mondo e per ciascuna regione individua un numero massimo di eventi estremi che una persona ha la probabilità di esperire nel corso della propria vita. A Bruxelles ad esempio questa soglia per le ondate di calore viene fissata a 6, nelle aree tropicali è più alta.

Complessivamente nel 1960 sono nate nel mondo circa 81 milioni di persone, e solo 13 milioni di queste ha raggiunto la soglia della propria regione: significa che solo il 16% dei 60enni di oggi ha vissuto un’esposizione a eventi climatici estremi che non ha avuto precedenti.

Nel 2020 sono nate 111 milioni di persone e lo studio stima che anche in uno scenario di riscaldamento di 1,5°C, circa la metà di loro (58 milioni) sarà testimone di eventi climatici estremi senza precedenti per intensità e frequenza, che aumenteranno rispetto al passato. Se la temperatura globale dovesse crescere fino a 3,5°C sarà il 92% di loro a venire esposta a condizioni climatiche estreme senza precedenti.

Lo studio evidenza una chiara diseguaglianza generazionale, che però è anche una disuguaglianza geografica ed economica: la maggior parte delle persone colpite vive nei Paesi delle fasce tropicali, dove il riscaldamento è più intenso e i mezzi per difendersi sono più scarsi.

Gli eventi estremi infatti si abbattono sulle società lasciando un profondo impatto economico, che perdura nel tempo, sotto forma di interruzione delle forniture e aumento della tassazione per riparare i danni.

Nei Paesi in via di sviluppo però spesso mancano le strutture per una corretta quantificazione dei danni, che invece è possibile nei Paesi sviluppati, per lo mendo fino a quando i governi continuano a investire nelle capacità di monitoraggio.

Il costo degli eventi estremi

Gli uragani Helene e Milton che si sono abbattuti sugli Stati Uniti tra settembre e ottobre scorsi, oltre a uccidere più di 250 persone, hanno provocato danni economici stimati in circa 113 miliardi di dollari. Gli incendi che hanno invaso Los Angeles a gennaio invece secondo diverse stime avrebbero superato i 250 miliardi di dollari di danni.

All’avvio del suo secondo mandato, il governo Trump aveva già drasticamente tagliato i fondi all’agenzia federale responsabile di assistere le comunità nella preparazione ai disastri naturali (Federal Emergency Managment Agency – Fema), ma ora si accinge a fermare anche ogni monitoraggio dei costi degli eventi climatici estremi che arrivano a superare 1 miliardo di dollari: l’annuncio è arrivato a inizio maggio dalla NOAA (National Oceanic and Atmospheric Administration).

Non solo la frequenza, ma anche l’impatto degli eventi estremi è aumentato nel tempo, al salire della temperatura planetaria. La NOAA infatti possiede un prezioso database che parte dagli anni 80, quando nel Paese si abbattevano in media 3 eventi all’anno da 1 miliardo di dollari o più. Dal 2020 al 2024 si è registrata una media di 23 eventi all’anno. Negli ultimi 45 anni gli Stati Uniti hanno contato 403 di questi disastri ad alto impatto economico, ma gli anni che ne hanno avuti di più sono stati il 2023 e il 2024, rispettivamente con 28 e 27 eventi. Come fossero una navicella che si appresta ad attraversare una fascia di asteroidi, gli Stati Uniti ora decidono di spegnere il radar.

Il costo sociale del carbonio

La nuova amministrazione statunitense ha anche ordinato di dismettere l’adozione di una metodologia nota come Social Cost of Carbon (SCC), che misura quanto l’emissione di 1 tonnellata di anidride carbonica si traduce in costi per la società, in dollari. Lo strumento serviva a valutare l’efficacia e gli effetti economici di diverse politiche o normative: Biden lo aveva spesso utilizzato per supportare le decisioni volte a porre un limite alle emissioni del settore dei trasporti, delle centrali elettriche e delle raffinerie o dell’industria.

La legittimità del SCC è stata a lungo oggetto di attacchi da parte dell’American Petroleum Institute, un’associazione che rappresenta le industrie del gas e del petrolio statunitensi. All’aumentare della temperatura globale e dell’impatto degli eventi estremi, il SCC aumenta di conseguenza. Durante l’amministrazione Obama si aggirava intorno ai 50 dollari per tonnellata di CO₂ emessa, mentre nel novembre del 2022 l’Agenzia statunitense per la Protezione Ambientale (EPA) ha proposto di aumentarne il valore a circa 190 dollari. Durante il suo primo mandato però, dal 2016 al 2020, Trump l’aveva abbassato al di sotto dei 5 dollari a tonnellata, mentre ora propone di eliminare del tutto la quantificazione del costo sociale del carbonio.

Interferenze politiche sulla ricerca

E proprio i finanziamenti alla divisione scientifica dell’EPA (Office of Research and Development – ORD) ora sembrano in procinto di venire fermati del tutto in nome dell’efficientamento della spesa pubblica. L’ufficio, che impiega 1.500 tra scienziati e ingegneri, si occupa di condurre ricerche che vanno a supporto della regolamentazione ambientale: tra queste vi è il monitoraggio delle sostanze inquinanti nelle acque.

A fronte dell’imminente chiusura, sono stati banditi solo altri 500 posti all’EPA per ricollocare i dipendenti dell’ORD. Nature parla di una situazione da “Hunger Games”: chi scegliere di tentare la strada del ricollocamento, specie coloro che sono a inizio carriera, dovrà competere con i colleghi per i pochi posti a disposizione. A chi è arrivato a un’età lavorativa avanzata invece è stata proposta una pensione anticipata o un licenziamento con qualche mese di salario extra. I ricercatori più giovani però temono che alcuni colleghi senior non accetteranno l’offerta e continueranno a occupare i pochi posti disponibili.

Inoltre, i nuovi posti sarebbero all’interno di altri programmi governativi, diretti da personale nominato dalla politica, il che pregiudicherebbe l’integrità dell’indagine scientifica. Anche se non si tratta di un aperto attacco a un’istituzione accademica, come è avvenuto nel caso di Harvard o della Columbia, anche questo qualifica a pieno titolo come interferenza politica nell’attività di ricerca.

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