
Donald Trump durante il recente discorso al Congresso USA. Foto: Reuters
Quando Eden Tanner ha scelto di studiare chimica, probabilmente non pensava che un giorno sarebbe stata coinvolta in uno scontro politico nazionale. Tanner non si è mai occupata di studi di genere o di tematiche riguardanti la diversity, tematiche verso cui il governo americano sta mostrando una particolare insofferenza, ma da anni lavora su molecole complesse con un obiettivo preciso: trovare nuove cure per il glioblastoma, una delle forme più aggressive e letali di tumore al cervello. Il suo progetto, reso possibile dal National Institutes of Health (NIH), l’ente federale che, con oltre 40 miliardi di dollari all’anno, rappresenta la principale fonte di finanziamento per la ricerca sanitaria, stava procedendo bene e nulla lasciava presagire che potesse rientrare nella lista dei "progetti controversi". Eppure, una mattina, Tanner ha scoperto che il suo finanziamento era stato revocato senza nemmeno una comunicazione ufficiale preventiva.
Curare il cancro non dovrebbe essere un progetto controverso, neppure per gli elettori appartenenti al movimento MAGA, ma per l’amministrazione Trump lo era. O, più precisamente, lo diventava nel momento in cui si scopriva che Eden Tanner ha una disabilità, e che la collega al suo fianco nel progetto era afroamericana. Il grant con cui avevano ottenuto il finanziamento apparteneva a un programma dell’NIH volto a promuovere la diversità nella comunità scientifica, offrendo maggiori opportunità a ricercatori e ricercatrici provenienti da gruppi storicamente sottorappresentati, un’iniziativa che, a partire dal gennaio 2025, è finita nel mirino della nuova amministrazione come parte di una più ampia offensiva contro le cosiddette politiche DEI: Diversity, Equity and Inclusion.
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L’inchiesta sui tagli alla ricerca del New York Times
Il progetto di Tanner non è stato l’unico. È solo uno dei quasi 2.500 progetti scientifici cancellati o congelati nei primi mesi del 2025 oggetto di un’inchiesta del New York Times sui tagli alla ricerca biomedica pubblica, coordinata da Emily Anthes, giornalista scientifica, e raccontata anche in un podcast della testata.
Di per sé, i tagli non generano sorpresa (semmai raccapriccio): Trump aveva già tuonato contro la “woke science”, quella ricerca che, secondo lui, era troppo politicizzata, e, sempre secondo lui, riguardava progetti di nicchia che non servivano al cittadino medio americano.
L’applicazione concreta dei tagli, però, ha superato ogni aspettativa: nessun dibattito parlamentare, nessun passaggio legislativo, è avvenuto tutto per via amministrativa, attraverso modifiche ai criteri di ammissibilità, rimozione retroattiva dei fondi, mancati rinnovi, e soprattutto mancate risposte: uno dei metodi più usati è stato semplicemente non inviare il pagamento previsto per l’anno successivo, lasciando i laboratori nell’incertezza.
I dati e i metodi
Secondo i dati raccolti dal New York Times, al 30 aprile 2025, 1389 progetti risultavano ufficialmente cancellati e oltre 1.000 erano bloccati per mancata erogazione dei fondi annuali. I giornalisti lo hanno scoperto incrociando i dati dei finanziamenti NIH con le liste di progetti terminati, i registri delle assegnazioni e le testimonianze di decine di scienziati rimasti senza fondi. Prima la situazione era decisamente diversa: in media, erano meno di 20 i progetti NIH cancellati ogni anno, quasi sempre per ragioni eccezionali come una malattia del ricercatore, l’abbandono dell’università o comportamenti scorretti.
L’inchiesta del New York Times ha richiesto mesi di lavoro e il contributo di figure professionali diverse. Emily Anthes, giornalista scientifica, ha collaborato con un team composto da data journalist, ingegneri e visual journalist. Il gruppo ha lavorato incrociando dati pubblici sulle sovvenzioni NIH, informazioni recuperate attraverso richieste FOIA (Freedom of Information Act), archivi ufficiali e documenti ottenuti da ricercatori. Gli ingegneri hanno sviluppato script per raccogliere e confrontare informazioni su migliaia di progetti; i data journalist hanno tracciato variazioni nei contratti, confrontando la durata originaria dei grant con le versioni modificate. I visual journalist hanno poi trasformato questi dati in grafici e mappe interattive. Il risultato è stato un’inchiesta costruita con rigore documentale, non su semplici dichiarazioni, ma su evidenze sistematicamente raccolte e verificate. Un lavoro che, come sottolinea Anthes nel podcast, non sarebbe stato possibile con il solo giornalismo tradizionale.
I tagli si decidono con ctrl+F
Un funzionario del NIH, rimasto anonimo per timore di ritorsioni, ha raccontato che i progetti sono stati selezionati sulla base di parole chiave ritenute “problematiche”: “transgender”, “misinformation”, “vaccine hesitancy”, “equity”. I funzionari avrebbero ricevuto l’ordine di cercare questi termini e di segnalare i grant corrispondenti per la cancellazione: basta un ctrl+F e la vita dei ricercatori cambia solo perché hanno usato una parola proibita.
Tra i primi a essere colpiti ci sono stati i progetti che si occupano di salute mentale, violenza o accesso alle cure tra gruppi minoritari. Un esempio è quello di Katherine Bogen, dottoranda all’Università del Nebraska-Lincoln che studiava il legame tra PTSD (disturbo da stress postraumatico), uso di alcol e violenza domestica nelle donne bisessuali. Ha ricevuto una lettera in cui il governo definiva il suo studio “basato su categorie artificiali e non scientifiche”, ma il suo non è un caso isolato. Sono stati interrotti, tra gli altri, progetti per ridurre la mortalità materna nelle donne afroamericane, studi sulla violenza armata nelle comunità asiatiche-americane, programmi per migliorare l’accesso alla salute mentale per i latinos, i poveri e gli abitanti delle zone rurali.
Anche studi apparentemente lontani dalle questioni invise a un certo elettorato sono comunque finiti nel tritacarne morfologico-semantico. Una ricerca sul cancro, per esempio, è stata vittima dei tagli perché si parlava di “diversity”, parola proibitissima secondo le nuove regole, ma che si riferiva in questo caso alla diversità genetica.
Cancellare il concetto stesso di disinformazione medica
Uno degli aspetti più inquietanti dell’ondata di tagli è stato il trattamento riservato ai progetti che indagavano sulla disinformazione sanitaria, ricerche scientifiche mirate a capire come le informazioni false si diffondono, in quali ambienti sociali, con quali conseguenze sulla salute pubblica. In particolare, alcuni di questi studi riguardavano l’impatto della disinformazione sull’esitazione vaccinale e la diffusione nei social network di false informazioni sul cancro.
Il messaggio sottostante, seppur mai dichiarato esplicitamente viste le modalità dei tagli, è chiaro: non è più benvenuta la ricerca che interroga la percezione pubblica della scienza, soprattutto se ne mette in luce le fragilità o le strumentalizzazioni care ad alcuni funzionari scelti da Trump nell’ambito della salute.
Il paradosso è evidente: in un’epoca segnata dalla disinformazione, si tagliano i fondi a chi cerca di studiarla con metodo scientifico. E nel momento in cui quei fondi spariscono, sparisce anche la possibilità di produrre dati affidabili su cui costruire una risposta pubblica efficace. Se non puoi più misurare un fenomeno, è come se quel fenomeno smettesse di esistere per la scienza: senza dati disponibili, chiunque può dire che il problema non c’è, e che è solo una questione di percezione. Se non sai dove si originano certe narrazioni come la falsa correlazione tra vaccini e autismo e l’idea che il Covid sia un’invenzione delle élite, non puoi costruire un antidoto comunicativo credibile. Se non puoi nemmeno fare queste domande, la disinformazione diventa invisibile e quindi non contestabile.
“ Molti progetti non sono stati rigettati perché errati, ma semplicemente perché ponevano domande considerate ideologicamente scomode. Il problema è che senza quelle domande, ci mancano strumenti importanti per proteggere la salute pubblica Emily Anthes
Se il potere detta le linee di ricerca
Un altro danno importante riguarda quello arrecato all’autonomia della ricerca. Se i ricercatori imparano che certi argomenti sono diventati off-limits, che usare parole come “equità” o “transgender” può costare un grant, è naturale che inizino ad autocensurarsi. Non succederà dall’oggi al domani, è un processo lento, ma devastante: la scienza per esistere dovrà conformarsi agli interessi del Governo (si sta già parlando di nuove ricerche sul legame tra vaccini e autismo, anche se era già stato escluso dalla comunità scientifica, tema molto caro al segretario di stato per la salute Robert Kennedy Jr.).
Qualcuno potrebbe pensare che si tratti di una questione americana, legata al clima politico polarizzato degli Stati Uniti, ma sarebbe un errore. Il NIH, come osserva il NYT, è uno dei principali finanziatori della scienza mondiale, molti progetti europei collaborano con gruppi americani, ricevono subgrant, condividono database. Tagliare quei fondi significa isolarsi scientificamente, ridurre la cooperazione globale, creare fratture nei network di ricerca.
Il ruolo del giornalismo d’inchiesta
Il lavoro del NYT non si è limitato alla denuncia: ha costruito una mappa dettagliata della trasformazione dell’intero ecosistema scientifico pubblico americano, mostrando come un’amministrazione possa intervenire su un’infrastruttura complessa come la ricerca medica senza nemmeno doverla smantellare apertamente, solo agendo sulle leve giuste: ritardare, omettere e lasciare che l’incertezza faccia il resto. Per molti ricercatori, l’inchiesta del New York Times è stata la prima conferma ufficiale che i ritardi e le mancate risposte non erano incidenti isolati, ma parte di una strategia sistematica.
In un contesto istituzionale così opaco, un lavoro come questo diventa uno strumento di verifica democratica, in grado di ristabilire un minimo di trasparenza quando le istituzioni smettono di garantirla. Nel nostro paese un giornalismo di questo tipo è piuttosto raro, come sottolineato anche dalla giornalista scientifica esperta di temi medici Roberta Villa in una puntata della sua newsletter Fosforo e Miele. Un giornalismo che scava nel sommerso partendo dai dati e ascoltando chi è stato silenziato, perché fare scienza significa anche difendere la sua possibilità di esistere, la sua autonomia, la sua pluralità, la sua capacità di porre domande scomode. Che è la stessa cosa che fa il giornalismo. O che dovrebbe fare, visto che i fondi sempre più risicati portano media e giornalisti ad accontentarsi di notizie urlate che generano qualche click in più.
“ Il giornalismo di qualità costa, ma la maggior parte di coloro che dicono di volerlo poi non sono più disposti a pagare nulla per averlo, dal momento che di pessima, raffazzonata, sviante o francamente falsa informazione se ne può avere gratis a volontà. Roberta Villa
L’inchiesta del New York Times, in questo senso, è un atto di resistenza civile: in un contesto in cui alla scienza è stato imposto il silenzio, il giornalismo ha parlato al suo posto, e ha fatto il suo mestiere fino in fondo.