SCIENZA E RICERCA
I danni ambientali della guerra: il cedimento della diga di Kakhovka

Science Magazine (Twitter)
In guerra non solo le infrastrutture energetiche, ma anche l’acqua può trasformarsi in un bersaglio e diventare una minaccia. Nel giugno del 2023, dopo ripetuti attacchi, la diga di Kakhovka lungo il fiume Dnipro ha ceduto, forse per un sabotaggio, e migliaia di metri cubi d’acqua hanno allagato l’Ucraina meridionale. Decine di persone sono morte e circa un milione ha perso l’accesso all’acqua potabile. Il collasso ha anche interrotto la produzione di energia idroelettrica, l’irrigazione di oltre 500.000 ettari di terreno agricolo e la fornitura di acqua, tramite un canale di 400 km, alla regione della Crimea.
Il tratto di fiume interessato inoltre ospitava una notevole biodiversità: circa 70 specie di pesci, di cui 18 protette, 350 specie di uccelli e numerose specie di mammiferi quali roditori, canidi, maiali selvatici e cervi. Nell’estuario del fiume si sono accumulati miliardi di molluschi morti ed è stato stimato che la popolazione di roditori sia stata decimata dall’inondazione per un valore compreso tra il 20% e il 30%. Occupando una posizione basale della rete trofica (o catena alimentare), anche le popolazioni di canidi e uccelli predatori ne hanno risentito.
Una prima stima dei danni ambientali era stata fatta da un gruppo di ricercatori britannici, che nel 2024 aveva pubblicato un lavoro su Nature Ecology & Evolution. Un gruppo di ricercatori ucraini dell’Accademia nazionale delle scienze di Kiev invece aveva compiuto una valutazione, positiva secondo gli autori, della capacità dell’ecosistema di ripristinarsi dopo un disastro naturale. Nonostante significativi segni di distruzione di habitat e danni da inquinamento, “poiché molte specie native sono evolute in condizioni di ampia salinità, oscillazione di temperature e tolleranza all’ossigeno, l’ecosistema del Mar Nero settentrionale appare pre-adattato a un recupero ecologico che può significare una resilienza ecologica durante e dopo la guerra”, scrivevano i ricercatori in un lavoro pubblicato su Ecological Process a febbraio di quest’anno.
Metalli pesanti
Oltre all’acqua però, nel giugno del 2023 si sono riversati in ambiente tonnellate di contaminanti che giacevano sul fondo della riserva idrica, che la diga aveva generato diversi km più a nord.
Precedenti analisi avevano trovato che nell’acqua erano presenti inquinanti derivanti dall’attività agricola, come azoto e fosforo. L’allagamento poi ha raggiunto stazioni di rifornimento di carburante, disperdendo circa 450 tonnellate di prodotti petroliferi. Tuttavia, la minaccia ambientale e sanitaria più seria potrebbe venire da un’altra classe di sostanze.
Un recente studio pubblicato su Science, guidato da ricercatori del Leibniz Institute di Berlino con la collaborazione di scienziati ucraini dell’Accademia nazionale delle scienze di Kiev, si è concentrato sul rischio ambientale provocato dalla dispersione dei metalli pesanti che negli anni si erano depositati sul fondale del bacino e che l’acqua ha in parte disperso in un’area che nella primavera del 2024 è stata stimata essere di 900 km quadrati di ampiezza.
Il disseccamento della riserva idrica che è seguito allo sversamento ha infatti rivelato uno strato scuro di sedimenti, che varia tra i 30 cm e i 150 cm di spessore, che secondo gli autori avrebbe un volume di 1,7 km cubi e che conterrebbe fino a 83.000 tonnellate di metalli pesanti.
Come riporta Richard Stone su Science, negli anni ‘60, nella città di Zaporizhzhia, che si affaccia sul bacino idrico a nord della diga (eretta negli anni '50), veniva costruita una delle automobili più in voga nell’Unione Sovietica: le fabbriche per anni hanno probabilmente scaricato in acqua enormi quantità di piombo, nichel, zinco e cadmio. Lo stesso deve essere accaduto nel polo industriale di Nikopol, che pure si affaccia sul Dnipro.
Ukrainian scientists are tallying the grave environmental consequences of the Kakhovka Dam disaster.
— Science Visuals (@ScienceVisuals) January 24, 2024
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Una bomba tossica a orologeria
Con la rottura della diga l’acqua fuoriuscita ha trasportato e disperso solo l’1% dello strato scuro di sedimenti, ma secondo gli autori del paper su Science il rischio maggiore è quello della contaminazione che verrà: l’esposizione del fondale pieno di metalli pesanti è una “bomba tossica a orologeria”.
Le piogge stagionali e lo scioglimento della neve continueranno a dilavare strati di sedimenti ricchi di sostanze tossiche, diffonderle nell’ambiente e accumularle nella rete trofica dell’ecosistema: una volta penetrate nel ciclo della catena alimentare degli organismi che ci vivono sarebbe difficile rimuoverli.
Risulta quindi urgente monitorare il bioaccumulo di inquinanti in alcune specie, come i cervi della pianura ad esempio, ma già raccogliere i dati necessari alla valutazione dei danni ambientali non è stato semplice. Nella sua parte finale, il Dnipro attraversa zone di guerra e bombardamenti, mentre l’accesso dal Mar Nero è precluso agli scienziati. Sono invece accessibili alcune aree a nord della diga, vicino a Zaporizhzhia, dove era stata formata la riserva idrica. In larga parte però, i ricercatori hanno dovuto fare affidamento su monitoraggio da remoto, come immagini satellitari, e su dati raccolti prima del collasso della diga e della guerra in Ucraina, per analizzare le condizioni dell’acqua.
L’altra urgente necessità è quella di sviluppare un piano per il contenimento della dispersione di ulteriori contaminanti. Le piante che sono cresciute sul letto del bacino disseccato ora hanno stabilizzato i sedimenti e contribuiscono ad assorbire dal terreno le sostanze tossiche. Non riusciranno però ad eliminarle completamente e le precipitazioni stagionali continueranno a disperderle a valle.
Si pensa allora a ricostruire la diga, anche per tornare a fornire irrigazione ai terreni agricoli, ma i tempi sarebbero lunghi, soprattutto in una situazione di conflitto tutt’altro che risolto. I ricercatori suggeriscono di erigere almeno una barriera temporanea di circa 15 km che separi il flusso principale del fiume dalle aree paludose più contaminate. Qualsiasi piano di ripristino dell’ecosistema acquifero però, rimarcano gli autori, non può prescindere dalla fine della guerra.