SOCIETÀ

Le idee e le lotte di Frantz Fanon a cent’anni dalla nascita

Il 20 luglio ricorre il centenario della nascita di Frantz Fanon, che nella sua pur breve vita ha ricoperto molti ruoli: medico psichiatra, intellettuale, militante, rivoluzionario e infaticabile testimone di quelle zone di frontiera in cui le nostre storie individuali si intrecciano con la Storia. Il suo sguardo e le sue parole taglienti hanno messo a nudo le storture del sistema coloniale francese, ma ancora oggi il suo pensiero ha qualcosa da dire alla società “occidentale”.

Oltre al suo lavoro come psichiatra, infatti, Fanon ha anche sostenuto attivamente la guerra d’indipendenza dell’Algeria dalla Francia ed è stato membro del Fronte di Liberazione Nazionale algerino. Descritto spesso come il più influente pensatore anticoloniale del suo tempo, per decenni la vita e le opere di Fanon hanno ispirato movimenti di liberazione nazionale e altri movimenti politici in Palestina, Sudafrica, Sri Lanka e Stati Uniti.

Dall’isola caraibica agli studi in Francia

Fanon nasce nel 1925 a Fort-de-France, in Martinica, da una famiglia della piccola borghesia di discendenza afro-caraibica, questo gli permette di studiare al liceo locale dove ha come insegnante il poeta e politico Aimé Césaire. Il giovane Frantz già sull’isola natale fa i suoi primi incontri con il razzismo sistemico coloniale, ma durante la Seconda Guerra Mondiale sceglie di combattere con la Resistenza francese: un’esperienza che segna la sua formazione etica e politica.

Dopo il conflitto, Fanon si laurea in psichiatria all’università di Lione nel 1951 e poi lavora in vari ospedali psichiatrici sia in Francia che Algeria (allora colonia francese), dove formula uno dei primi modelli per la psicologia comunitaria. Secondo questo modello, molti pazienti con disagio mentale avrebbero una prognosi migliore se fossero integrati nella loro famiglia e comunità d’origine, anziché venire trattati in un’istituzione come l’ospedale.

Quella di Fanon è una vocazione alla cura che si scontra presto con la realtà violenta dell’oppressione coloniale e con ciò che egli chiama la «patologia della dominazione». In Algeria, dirige un reparto psichiatrico nella città costiera di Blida: qui l’esperienza sul campo lo porta a riflettere su come la tradizione psichiatrica, tarata su corpi e menti occidentali, spesso fallisca davanti ai drammi delle persone colonizzate e razzializzate.

Pelle nera, maschere bianche

Mentre completa la sua specializzazione in psichiatria, Frantz Fanon scrive e pubblica anche il suo primo libro Pelle nera, maschere bianche (1952): un’analisi degli effetti psicologici negativi della sottomissione coloniale sulle persone nere. Originariamente, il manoscritto doveva essere la sua tesi di dottorato in cui parlava del razzismo che aveva vissuto sulla sua pelle durante gli studi a Lione, ma il rifiuto della tesi lo spinge a pubblicarla come saggio.

Il testo di Fanon attacca la psicologia occidentale, su cui lui stesso si era formato, e getta nuova luce sull’identità delle persone nere e sulla violenza simbolica e concreta della colonizzazione; l’intera opera è un’esplorazione della sofferenza individuale intrecciata al contesto storico e sociale. Non a caso, il libro si apre con una citazione del suo maestro Aimé Césaire: «Io parlo di milioni di persone a cui sono stati inculcati / con grande accortezza la paura, il complesso / d’inferiorità, la soggezione, la prostrazione, / la disperazione, il servilismo» (da Discorso sul colonialismo).

Attingendo alla sua formazione da psichiatra, Fanon dimostra in questo libro come il disagio psichico delle persone migranti o colonizzate non sia mai separabile dalle condizioni di isolamento, discriminazione e disorientamento generate dal dominio coloniale. L’opera denuncia l’alienazione e il senso di inferiorità interiorizzati dalle persone nere nel tentativo di essere accettate dalla società dominante, offrendo una riflessione profonda sulle dinamiche di potere e sull’identità. E tutto questo passa anche attraverso il linguaggio, infatti vi scrive che «parlare significa utilizzare una certa sintassi, possedere la morfologia di questa o quella lingua, ma è soprattutto assumere su di sé una cultura, sostenere il peso di una civiltà». 

L’impegno politico e l’ultima opera

Nel 1954 scoppia la guerra d’Algeria e Fanon si schiera con la resistenza del FLN (Fronte di Liberazione Nazionale algerino), stringendo con i suoi membri legami sia politici che militari. Dopo aver lasciato il suo incarico di primario all’ospedale di Blida, rompe definitivamente ogni legame con la Francia e rinuncia anche alla cittadinanza francese, definendosi come algerino. Le atrocità commesse dall’esercito francese durante la guerra d’indipendenza algerina sono anche al centro del film La battaglia di Algeri diretto da Gillo Pontecorvo, che ha vinto il Leone d’oro alla mostra del cinema di Venezia nel 1966. 

Trailer de "La battaglia di Algeri" (1966)

Fanon viene espulso dall’Algeria nel 1957 ma continua a collaborare con il FLN da Tunisi, si dedica infatti completamente alla causa anticoloniale, grazie anche alle sue attività come diplomatico e intellettuale riconosciuto a livello internazionale. È in questo periodo che inizia a scrivere quella che diventerà la sua opera più famosa: I dannati della terra che verrà pubblicato alla fine del ’61. Purtroppo il libro vede la luce solo pochi giorni prima della morte del suo autore, che era malato da tempo di leucemia e si spegne a Bethesda (una cittadina vicino a Washington, negli Stati Uniti) a soli 36 anni.

L’ultimo testo di Fanon è un manifesto radicale per la rivoluzione dei popoli oppressi, in cui teorizza la violenza come risposta inevitabile all’oppressione sistemica dei Paesi industrializzati nei confronti del Sud del mondo. Ma più che un invito ad abbandonarsi al caos, Fanon ricerca la nascita di un «mondo nuovo» dove anche le persone colonizzate possano diventare soggetti della Storia dopo che per secoli ne sono state relegate ai margini.

Fin da subito Fanon vuole che la prefazione de I dannati della terra sia firmata dal filosofo Jean-Paul Sartre, tanto che chiede così al suo editore di aiutarlo: «ditegli che ogni volta che mi siedo alla scrivania, penso a lui». E infatti nell’estate del 1961 riesce a incontrare Sartre a Roma, qui trascorrono insieme tre giorni interi, in cui i due uomini si studiano e si confrontano su tutto con grande ammirazione reciproca.

Le idee di Fanon alla prova del tempo

Per tutta la vita Frantz Fanon ha denunciato il razzismo insito nella psichiatria occidentale, che non comprende il vissuto delle persone colonizzate e interpreta il loro disagio come malattia individuale invece che come reazione a un sistema oppressivo. Ma la sua critica si estende all’intero sistema sociale dei Paesi coloniali, che considera strutturalmente violento e incapace di vera inclusione. Per Fanon, un popolo oppresso si libera non quando si adatta alle regole imposte dal potere che lo sfrutta, ma quando spezza le proprie catene: la guarigione e l’emancipazione passano attraverso un’azione collettiva e rivoluzionaria.

Idee radicali certamente, che forse sembrano retaggio di un’epoca ormai passata, ma invece può essere ancora utile rileggere Fanon. Infatti nel suo pensiero, psicologia, filosofia e politica non sono compartimenti stagni, tanto che egli collega i fallimenti della terapia alla mancata «dialettica del riconoscimento», nella quale la persona colonizzata si trova esclusa dal consesso umano. «Il nordafricano entra spontaneamente in un quadro preesistente», si legge nelle sue pagine, «un contenuto costruito dall’europeo e non realmente suo».

E oggi, tra nuove forme di migrazione, razzismi ri-emergenti e persistenti disuguaglianze globali, lo psichiatra martinicano ci ricorda che nessun individuo può essere compreso (né aiutato) se scollegato dal proprio mondo, dal contesto storico e dall’intersezione di varie discriminazioni. Ecco allora che riscoprire Fanon non significa solo celebrare un anniversario, ma attrezzarsi per abitare in modo critico la nostra contemporaneità, perché come scriveva in Pelle nera, maschere bianche: «non si tratta più di conoscere il mondo, si tratta di trasformarlo».

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