CULTURA

Se la globalizzazione passa per lo sviluppo locale

Siamo alla fine degli anni Settanta. Le regioni del centro e del nord-est dell’Italia si caratterizzano per la presenza di una industrializzazione diffusa, della piccola e media impresa, di forti comunità locali e di una rete di città di medie dimensioni. Due partiti contrapposti la fanno da padrone: la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista. Sulla base di queste similitudini e tratti comuni c’è chi, Arnaldo Bagnasco prima e Carlo Trigilia poi, ha teorizzato un “modello locale”, la cosiddetta Terza Italia. Dopo la prima, quella del nord-ovest, il vecchio triangolo industriale (Milano, Genova e Torino), e la seconda, quella del Mezzogiorno. In questo approccio a farne le spese sono tuttavia le peculiarità politiche e sociali del territorio.

Oggi sul modello della Terza Italia ci si interroga. Allo stesso modo ci si interroga sul ruolo e l’importanza del territorio e del contesto locale come motore di sviluppo davanti alle spinte che vengono dalla globalizzazione dei mercati e dalla europeizzazione. Un concetto, quello di sviluppo locale, che è stato accolto con resistenza dalla teoria economica consolidata che per lungo tempo aveva ignorato la dimensione locale.

Nel suo ultimo libro, Modi di regolazione dello sviluppo locale. Una comparazione per contesti di Veneto ed Emilia Romagna (Padova University Press 2012), Patrizia Messina propone una lettura alternativa a quella di Bagnasco che sostituisce al concetto di “localismo” quello di “luogo”. Messina ritiene infatti che siano proprio le differenze locali, in modo specifico le “subculture” politiche, a determinare modalità di sviluppo tra loro profondamente diverse. Sono ancora le subculture politiche a sancire il modello istituzionale, aggregativo o integrativo, e lo stile di governo locale, interventista o non interventista. “Quello di Patrizia Messina – sottolinea Gianni Riccamboni, docente del dipartimento di scienze politiche, giuridiche e internazionali dell’università di Padova – è un approccio neo-istituzionale  in cui la chiave politica rappresenta lo strumento di lettura”.  

Nel Veneto “bianco” di tradizione democristiana, sottolinea l’autrice nel volume, si è affermato un modello istituzionale “aggregativo”, in cui prevalgono gli interessi privati, la logica dello scambio e della mediazione. Domina un forte localismo anti-statalista e un debole senso della dimensione regionale: la realtà locale e quella regionale non dialogano tra loro. Esiste una concezione amministrativa dell’ente pubblico. 

L’Emilia Romagna al contrario, notoriamente “rossa”, ha visto l’affermarsi di un modello “integrativo” con una filiera istituzionale che subordina gli interessi privati all’interesse pubblico, generando in questo modo senso di appartenenza alla comunità politica e condivisione di intenti e valori. Nelle zone rosse è maggiore la saldatura tra città e campagna, mentre nelle zone bianche esiste una frattura fra il modello di città-centralizzata e campagna.

In Veneto storicamente c’è sempre stata una forte diffidenza verso il potere politico, preconcetto che è necessario superare nella misura in cui la politica ha il compito di regolare lo sviluppo. Questa la ragione per cui la programmazione politica non ha effetto in Veneto, dove l’intervento pubblico viene visto con una certa diffidenza. Situazione inversa nella vicina Emilia in cui invece viene considerato una risorsa fondamentale. 

“Non si può affermare – sostiene l’autrice – che il modello integrativo delle zone “rosse” sia migliore o da preferire a quello aggregativo delle zone “bianche”, tanto più che i modi di regolazione non sono esportabili e trasferibili a livello nazionale nella misura in cui sono strettamente legati al contesto locale di appartenenza e con questo evolvono e si trasformano”. Il modello emiliano ha forse più carte da giocare: partendo da una centralità dell’attore politico e da una filiera istituzionale l’adattamento ai cambiamenti richiesti dal contesto internazionale può risultare più facile. 

Di crisi del modello Veneto si parla ormai da qualche tempo e le note dolenti vanno cercate proprio nella frammentazione territoriale, nella frattura tra città e campagna, nella mancanza di un senso di appartenenza alla comunità politica. Come agire? “Mettendo da parte i localismi in una nuova ottica di sviluppo regionale” sostiene Giuseppe Zaccaria, rettore dell’università di Padova, e aggiunge Patrizia Messina: “La regione deve fare sistema, deve essere coesa al proprio interno e competitiva all’esterno”. Soprattutto in un momento in cui i processi di globalizzazione dell’economia e di europeizzazione vogliono una governance legata alle istituzioni del territorio, in cui quindi gli attori politici a livello regionale possono assumere un ruolo inedito e strategico di coordinamento sconosciuto fino a questo momento nelle nostre zone.  

È fondamentale dunque creare una rete di relazioni con il territorio, in cui l’università costituisca uno degli attori principali. “È proprio la costruzione di una rete di relazioni tra università e territorio – continua Zaccaria – a rappresentare la cosiddetta terza missione dell’università, soprattutto per tradurre in operatività la ricerca”. 

Monica Panetto

 

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