SOCIETÀ

Sonderkommando a Dachau, la colpa di un innocente

L’odore della carne bruciata e lo scricchiolio dei nervi umani tra le fiamme. Per anni, Enrico Vanzini è stato perseguitato dagli incubi. “Sognavo che mi picchiavano o che un morto, mentre stavo per scaricarlo dentro il forno, si risvegliava e mi implorava di salvarlo”. In un centinaio di pagine il libro L’ultimo Sonderkommando italiano raccoglie la testimonianza e i dolorosi ricordi di un ragazzo poco più che ventenne, catturato dai tedeschi nel 1943 e internato, nell’agosto 1944, per sette lunghi mesi, nel campo di concentramento di Dachau, fino alla liberazione americana, quando Vanzini, ormai senza più speranze né forze, camminava sulle ginocchia.

Oggi quel ragazzo di anni ne ha novantuno. Ha sguardo e modi gentili e la memoria della sofferenza ancora gli cammina a fianco; ripete spesso la parola “pace,” unica richiesta fatta alla vita. Per sessant’anni ha custodito il dolore solo nel suo cuore, senza raccontare il suo dramma a nessuno (neanche moglie e figli sapevano); oggi invece svela i dettagli della sua storia per scaricarne il peso e aiutare, soprattutto i giovani, a comprendere e non dimenticare affinché quell’orrore non si ripeta mai più.

A curare il libro è stato un giornalista padovano, Roberto Brumat, già regista, nel 2012, del documentario Dachau. Baracca 8, numero 123343, dedicato proprio alla storia di Vanzini. “Ascoltando la sua storia non si può restare impassibili – spiega Brumat – L’emozione è una sferzata che ti ferisce, e l’incredulità, l’indignazione e la rabbia ti assalgono tutte insieme”.

“La guerra mi ha rubato sei anni di vita, ma gli ultimi sette mesi sono stati interminabili, trascorsi nel peggiore dei modi possibili – si legge nelle prime pagine del libro – in Germania, poco sopra Monaco di Baviera, prigioniero dei nazisti nel campo di concentramento di Dachau”.

Prima la guerra in Grecia, poi sette mesi nel lager tedesco a subire percosse e lavori forzati, a patire il freddo, le umiliazioni e la fame (entrò che pesava ottantasei chili e ne uscì scheletrico, con cinquantasei in meno. La madre, al suo ritorno, faticò a riconoscerlo). Ma di quel periodo oscuro, Vanzini ricorda e racconta, soprattutto, i quindici giorni da Sonderkommando, le unità speciali di internati costretti a cremare nei forni i prigionieri morti. Quando, investito dall’odore di carne bruciata e dal calore insopportabile sprigionato dai forni accesi, trascinava e bruciava cadaveri di disgraziati morti di stenti, per le troppe botte o le iniezioni di benzina o sterminati nelle camere a gas. “Quelli come me duravano poco: venivano assassinati dalle SS. Il protocollo, infatti, prevedeva che gli addetti ai forni fossero fucilati perché non raccontassero quel che avevano visto”. E continua: “Pochissimi tra noi sono sopravvissuti. Per quanto ne so, da quando nell’ottobre 2012 è morto lo scrittore ebreo, internato ad Auschwitz-Birkenau, Schlomo Venezia, sono l’ultimo italiano di quelle unità speciali rimasto in vita”.

Dopo la liberazione, il ritorno a casa, una vita da ricostruire e, poi, sessant’anni di silenzio. Fino alla rivelazione, con la confidenza fatta, nel 2005, “a una signora che veniva a casa mia per farmi delle punture alla schiena – racconta -. Il dolore delle percosse subite tanti anni prima mi accompagnava ancora e quelle iniezioni mitigavano il male. La donna era curiosa di conoscere la causa di quegli acciacchi e, quando gliela spiegai, ne parlò a una giornalista di Roma che venne a intervistarmi per due giorni interi. Mia moglie non capiva cosa ci trovasse di così interessante in me, ex autista di pullman, una giornalista venuta apposta dalla capitale per parlarmi e così alla fine le permisi di rimanere ad ascoltare il mio racconto. Pianse tanto”.

Ne I Sommersi e i salvati, Primo Levi scrive: “Aver concepito e organizzato le Squadre (i Sonderkommando, ndr) è stato il delitto più demoniaco del nazionalsocialismo. Attraverso questa istituzione si cercava di spostare su altri, e precisamente sulle vittime, il peso della colpa, talché, a loro sollievo, non rimanesse neppure la consapevolezza di essere innocenti”. Lasciando un segno indelebile sull’anima.

Francesca Boccaletto

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Enrico Vanzini durante la guerra

 

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