SOCIETÀ
Valutazione di impatto ambientale: l'Europa dice cosa fare
Un cantiere dell'alta velocità in Italia. Foto: Francesco Anselmi/contrasto
Tutela della biodiversità, lotta ai cambiamenti climatici, eliminazione dei conflitti di interesse sono solo alcuni degli elementi di novità introdotti dalla nuova direttiva sulla valutazione di impatto ambientale (Via). Dopo l’approvazione in Parlamento europeo lo scorso 12 marzo, e a breve un passaggio di ratifica in Consiglio europeo, la norma diventerà ufficiale entro aprile con la pubblicazione nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea. Si tratta della prima revisione radicale della norma da quando, 30 anni fa, è stata emanata. A mancare tuttavia è la valutazione obbligatoria per l’estrazione del gas di scisto (in gran parte metano) intrappolato nelle rocce porose ad alta profondità che tanto fa discutere negli ultimi anni.
Introdotta nel 1969 negli Stati Uniti con il National Environment Policy Act (Nepa), in Europa la normativa viene recepita nel 1985. “La Via – spiega Andrea Zanoni, eurodeputato e relatore per il Parlamento europeo della nuova direttiva presentata in questi giorni a Padova – è una procedura che valuta l’impatto ambientale delle grandi opere prima che queste vengano avviate”. Esamina cioè le conseguenze dirette e indirette sulla salute umana e sull’ambiente, sulla flora, sulla fauna, sul suolo, sul clima, sul paesaggio e sul patrimonio culturale, della realizzazione di opere come autostrade, ponti, discariche, cementifici, inceneritori con l’obiettivo di tutelare la qualità della vita e il mantenimento della specie e dell’ecosistema. La normativa mira dunque a prevenire, più che a contenere, i possibili effetti negativi derivanti dalla realizzazione delle grandi opere. E fornisce, in questo modo, informazioni a monte, nella fase di pianificazione, così da poter influenzare le decisioni a livello imprenditoriale e politico. Specie se si considera che ogni anno nell’Unione europea i progetti sottoposti a Via vanno dai 15.000 alle 26.000.
Le novità introdotte dalla nuova direttiva toccano in vario modo tutti gli attori coinvolti: dai committenti che eseguono il progetto, alle autorità deputate a valutare l’impatto dell’opera sull’ambiente, fino al pubblico che deve essere informato sugli atti che stanno a monte di un progetto, prima che questo venga realizzato. Proprio per aumentare la trasparenza e facilitare l’accesso alle informazioni, la nuova direttiva rafforza il coinvolgimento della società nei processi di valutazione di impatto ambientale, soprattutto attraverso l’istituzione di un portale informatico centrale. E ciò anche per prevenire la secretazione di documenti, sottolinea Zanoni. I conflitti di interesse sono un altro tema su cui si insiste e si interviene. Il committente, specie quando è un soggetto pubblico, deve essere indipendente dall’autorità competente di cui deve essere garantita l’obiettività. E la nuova direttiva si muove in questo senso.
Ma le novità sono anche altre. Un maggiore impegno per la tutela della salute pubblica e per la salvaguardia del patrimonio culturale e paesaggistico innanzitutto. Non mancano poi le sanzioni per chi viola la normativa, azioni contro il cosiddetto “salami slicing” (la valutazione a pezzi di uno stesso progetto per “ridurre” l’impatto ambientale che ne deriva), il monitoraggio degli effetti negativi derivanti dalla costruzione di un progetto e le valutazioni di possibili alternative che incidano meno sul territorio. Limitata fortemente anche la possibilità di ricorrere a deroghe che ora vengono concesse solo per ragioni di sicurezza pubblica e difesa nazionale.
Dal punto di vista della politica ambientale l’accento viene posto sulla tutela della biodiversità, in considerazione del fatto che solo il 10% degli ecosistemi nell’Unione vengono considerati in “buono stato”; sulla lotta ai cambiamenti climatici forieri sempre più spesso anche di danni economici (basti pensare ai raccolti agricoli); su un uso efficiente delle risorse naturali che oggi vengono sfruttate più del dovuto (nel Mar Adriatico, ad esempio, si pesca più fauna ittica di quanto questa riesca poi a riprodursi). Un occhio di riguardo viene dato anche alla protezione del suolo, strettamente legata agli odierni processi di cementificazione. Urbanizzare significa rendere impermeabile il terreno e aumentare la portata di piena, al punto che l’acqua viene restituita alla rete idrica in quantità maggiore e più velocemente.
“Con il testo adottato – spiega Zanoni – l’Europa ha imboccato la strada verso una maggiore tutela del territorio, innalzando la qualità degli standard di protezione dell’ambiente e della salute umana di cui le pubbliche amministrazioni dovranno tener conto per la valutazione dell’impatto ambientale dei grandi progetti pubblici e privati”.
Ciò su cui invece non si è potuto fare molto è l’estrazione del gas di scisto, un gas che si estrae da giacimenti non convenzionali, a 2-4 chilometri di profondità, attraverso trivellazioni orizzontali e fracking idraulico (fratturazione delle rocce che contengono il gas, che avviene pompando acqua, sabbia e agenti chimici ad alta pressione). E in proposito non manca il dibattito sulla possibile correlazione tra il fracking e i terremoti e sull’impatto ambientale che questo tipo di estrazione determinerebbe sulle acque superficiali e sotterranee circonstanti.
“L’intenzione – spiega Zanoni – era di inserire questo tipo di attività tra i progetti che richiedono la valutazione di impatto ambientale obbligatoria, cosa che invece non è avvenuta”. Nel caso del gas di scisto gli interessi in gioco non sono pochi, soprattutto in termini di riduzione della dipendenza energetica da paesi esteri. Un esempio su tutti gli Stati Uniti, uno dei principali produttori.
Zanoni sottolinea l’influenza che le lobby, dai forti poteri economici, possono avere in fase di discussione per abbassare il consenso a seconda degli interessi in gioco. “Ho incontrato associazioni di categoria, come la Friends of heart o la Birdlife, che si sono poste in modo propositivo suggerendo idee, mentre le rappresentanze delle lobby tendevano spesso a indicare come modificare il testo normativo”.
Ora, dopo l’approvazione in Parlamento, la parola passa agli Stati membri e alle Regioni che hanno l’obbligo di recepire la nuova direttiva entro tre anni, pena procedura di infrazione. “Le direttive – spiega Massimo De Marchi, docente del dipartimento di ingegneria civile, edile e ambientale di Padova intervenuto all’incontro – costituiscono gli strumenti minimi e se un Paese intende adottare una politica più restrittiva può farlo”. E conclude: “Ciò che noi cittadini possiamo fare ora è spingere le rappresentanze regionali e i parlamentari a recepire la nuova direttiva”.
Monica Panetto