SOCIETÀ

Gloria, denaro, credibilità

L’articolo che abbiamo pubblicato ieri sui premi “Claudio Abbado” può essere letto in due modi: come analisi e critica del marchingegno amministrativo messo in piedi dal ministero dell’Istruzione per attribuirli ma anche come riflessione sugli scopi dei premi e, in particolare, sui valori che essi promuovono. Premesso che considero ineguagliabile il talento del Miur per trasformare in un incubo burocratico qualsiasi iniziativa ben intenzionata , è sulla questione filosofica che vorrei intervenire qui.  

Le domande sollevate da Martino Periti sono due: 1) Il premio a un artista non dovrebbe essere fortemente competitivo, in modo da offrire spazio a pochi, veri talenti? 2) E l’entità del premio non è essa stessa un indice del prestigio del concorso? Io penso che dietro questioni apparentemente semplici, che implicitamente spingono a una risposta positiva, stiano problemi complessi, come gli effetti sociali della competizione e il ruolo che vogliamo assegnare al mercato nella regolazione delle nostre vite.

Un premio dovrebbe essere “fortemente competitivo?” Dipende. L’assegnazione di premi è un’attività sociale, quindi ha degli effetti sulla comunità che vanno analizzati. Miss Italia è “fortemente competitivo” (partecipano migliaia di ragazze) ma ha uno scopo sociale positivo? Anche senza far propria la critica femminista a questo tipo di manifestazioni, accusate di creare una visione della “donna-oggetto”, potremmo chiederci se premiare attributi indipendenti dal merito, come appunto la bellezza, sia giusto. In una società apparentemente devota al culto della meritocrazia dovremmo premiare chi fa qualcosa, non chi è qualcosa (più aggraziato, più alto, più sexy di altri). Di per sé, la competitività non è un criterio valido per decidere se un premio dovrebbe esistere o no.

 Il Nobel premia gli scienziati che hanno dato i contributi più significativi in medicina ma anche gli uomini comuni che abbiano lavorato meglio per la pace nel mondo: lo scopo esplicito è stimolare gli sforzi per un maggiore benessere dell’umanità. È certamente supercompetitivo ma il suo prestigio non dipende dall’esito finale (uno, due o tre vincitori) bensì da ragioni del tutto differenti: l’utilità collettiva  e la percezione che la giuria del premio rappresenti il consenso della comunità di esperti. Se il premio per la letteratura viene attribuito a Mario Vargas Llosa o Alice Munro è difficile che a qualcuno venga in mente di dire: “Sarebbe stato meglio darlo a Sophie Kinsella”. 

Il problema nasce quando ogni comune italiano, ogni banca che ha 1.000 euro da usare per farsi pubblicità, ogni associazione che vuole finire sui giornali locali indice un premio letterario. Poiché non hanno l’Accademia di Svezia che seleziona i candidati si rivolgono all’assessore al turismo, alla giornalista televisiva che possiede una villa in paese, al preside che ha pubblicato a sue spese varie raccolte di poesie erotiche. La giuria così costituita farà del suo meglio per scoprire nuovi talenti, in genere premiando qualcuno/a visto in televisione. Il premio è “fortemente competitivo” ma si tratta di una competizione che manca del requisito fondamentale: la credibilità dei giudici. Quindi il problema non è se un premio è competitivo o no, ma qual è il livello di credibilità che esso possiede sulla base del giudizio degli esperti. 

Nel caso del “Claudio Abbado”, quindi, il problema non è se sia competitivo o no ma se il ministero sia in grado di mettere insieme, per ogni categoria, i migliori esperti di fisarmonica, mandolino, percussioni o qualsiasi altro strumento insegnato nei conservatori. Conoscendo la capacità delle strutture ministeriali di inventare meccanismi barocchi e inefficienti (basti pensare all’Anvur) il pessimismo è più che giustificato, ma l’obiettivo di principio, premiare i migliori anche nelle categorie meno “gettonate”, è positivo.

La seconda domanda, “L’entità del premio non è essa stessa un indice (parziale, ovviamente) del prestigio del concorso?”, merita ugualmente un’analisi più approfondita. Se il Miur avesse deciso di destinare l’intero importo di un milione di euro a un solo vincitore, avrebbe trasformato il “Claudio Abbado” in qualcosa di più prestigioso del "Frédéric Chopin”? No. Lo “Chopin” esiste dal 1927, ha reclutato nella sua giuria i più grandi pianisti del mondo, nel 2010 aveva come presidente onorario Jan Ekier, il curatore delle opere complete del compositore franco-polacco: il “Claudio Abbado” ha bisogno di affermare la propria credibilità e questo dipende dal profilo dei giurati e dalla severità delle prove di selezione, non dall’ammontare del compenso. Lo “Chopin”, tra l’altro, ha una dotazione piuttosto modesta: 30.000 dollari.

Prendiamo di nuovo il Nobel, cui il filosofo Michael Sandel dedica varie pagine nel suo libro Quello che i soldi non possono comprare. Sandel spiega per quale motivo il Nobel non si può comprare: perché è un bene onorifico e quindi acquistarlo significherebbe far scomparire il significato che porta con sé. Il Nobel vuol dire: “Quest’anno il maggior contributo allo sviluppo della medicina o della chimica è stato dato da X” e questo messaggio è valido solo e soltanto nella misura in cui medici o chimici sono d’accordo: se venisse attribuito a Carlo Conti, o se Bill Gates se lo comprasse, il premio sarebbe immediatamente screditato e scomparirebbe.

Quindi è irrilevante se il Nobel porta con sé una somma di denaro maggiore o minore: non a caso è un compenso variabile, che negli ultimi anni è stato addirittura diminuito (dopo aver toccato i dieci milioni di corone, oggi è sceso a otto milioni, circa 830.000 euro). Ciò che conta è il valore simbolico che esso ha saputo conquistarsi nel lungo  periodo e mantenere fino ad oggi. Se Warren Buffett (il secondo miliardario al mondo dopo Gates) decidesse di istituire il Buffett Prize e di distribuire ogni anno non 830.000 euro ma 83 milioni di euro, 100 volte di più, questo non renderebbe  il suo premio 100 volte più credibile. Dovrebbe assumere i migliori scienziati al mondo solo per tentare di eguagliare la credibilità del Nobel, non certo per superarla. 

Quindi dovremmo forse chiederci se non dovremmo andare in direzione di un sistema di premi che vada in direzione opposta a quella della monetizzazione di ogni cosa, fare un piccolo sforzo per restringere il raggio d’azione del mercato, non per allargarlo. Michael Sandel scrive: “Mettere un prezzo alle buone cose della vita può corromperle”.  Come venivano compensati i vincitori dei giochi olimpici nell’antica Grecia? Con una corona d’ulivo e con l’annuncio pubblico e ritualizzato del nome del vincitore. Durarono oltre 1000 anni, più di quanto possa sperare di sopravvivere un qualsiasi ministero, con o senza premi in denaro. 

Fabrizio Tonello

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