CULTURA

Le lacrime di Veyne per Palmira, nobile città

Ad  Aleppo, in Siria, civili impossibilitati a fuggire muoiono ogni giorno a decine; nella migliore delle ipotesi sono costretti a rimanere a vivere nella loro città  terrorizzati dai bombardamenti. Gli attacchi alla capitale assediata, Damasco, hanno dato vita alla più grande popolazione di rifugiati per un solo conflitto in una generazione, l'Unicef denuncia un genocidio di bambini che va avanti ininterrotto da sei anni:  di fronte a una simile, insopportabile, realtà è molto difficile concentrarsi sulla distruzione del patrimonio artistico e culturale della Siria. Si sono accesi diversi dibattiti in merito all'opportunità di porre l'accento sullo smantellamento di siti archeologici quando a scomparire è prima di tutto una generazione di siriani. Rese un po’ meno dolorose dalla distanza temporale vengono in mente le vicende relative alla distruzione e al  saccheggio delle opere da parte delle truppe naziste durante la seconda guerra mondiale, l'operato di Pasquale Rotondi da una parte, quello di Giorgio Perlasca e Oskar Schindler dall'altra.

Una voce autorevole e un punto di vista non banale sull'argomento è quello offerto dal provenzale Paul Veyne, storico, archeologo classe 1930, grande cultore di civiltà antiche che ha scritto un saggio di cento dense pagine dal titolo "Palmira, il tesoro in pericolo" (Garzanti editore): il sito archeologico di Palmira, intrecciandone la vicenda a quella umana di chi  che ne è stato per anni l’appassionato curatore. Il testo di Veyne, che ha per titolo il nome della favolosa città carovaniera, è infatti dedicato a Khaled al Assad, suo collega siriano, massimo esperto di archeologia palmirena, rapito e quindi assassinato nell'agosto del 2015 dai militanti dello Stato islamico. 

Il Guardian, alla scomparsa dello studioso lo scorso anno, ha riportato la notizia che Assad si sarebbe rifiutato di fornire indicazioni sul fantomatico nascondiglio di alcune opere d'arte; il  corpo senza vita dell’archeologo venne esposto, vuole la vulgata,  proprio presso una delle leggendarie  colonne che correvano lungo la via che divedeva in due il centro di quella antica Palmira cui l’archeologo siriano aveva dedicato l'intera esistenza. Per tragico destino "Mr Palmira", torturato per giorni e giustiziato davanti al museo della città nuova (Tadmur) di cui era stato direttore per quarant’anni, nella sua carriera  aveva approfondito particolarmente il tema dei monumenti funerari costruiti al di fuori di Palmira per i cittadini più ricchi: vere e proprie torri tomba di più piani. 

Nei giorni dell'assassinio di Assad l'Isis faceva esplodere anche il tempio di Baalshamin, il cuore del sito archeologico dove veniva venerato quel "Signore del cielo" al centro di un Pantheon che Veyne descrive come legato alla popolazione locale  da una relazione più patriarcale e sentimentale di quella che univa i greci alle loro divinità. 

In una recentissima intervista rilasciata al The Art Newspaper dall’archeologo Michal Gawlikowski (anch’egli espertissimo di Palmira e, dal 1973, a capo della spedizione polacca che ha scavato nel sito fino all’inizio del conflitto nel 2011), si legge che il primo bersagli della furia devastatrice dell’Isis è stata la grande statua di marmo raffigurante il leone, un tempo collocato sul tempio della dea Athea-Allat, divenuto simbolo di Palmira.

Il caso vuole - ha spiegato  Gawlikowski - che uno dei termini per indicare leone in arabo sia proprio Assad, vale a dire il nome del Presidente siriano (oltre che quello dell’archeologo ucciso) e la distruzione di quella statua non è stata casuale.

Nessuno può dire con esattezza cosa si sia salvato a Palmira: dopo la sua liberazione da parte dell’esercito di  Bashar al-Assad col supporto di militari russi il sito è off limits per via delle mine e della presenza dei soldati. 

Gawlikowski  è convinto che molto, grazie alla copiosa documentazione di cui si dispone, potrà essere ricostruito usando le stesse pietre, ma certamente il sito non sarà più lo stesso. “Il restauro delle antichità siriane avverrà tardi, quando la guerra sarà finita e anche allora la priorità sarà mettere in salvo le persone  prima dei monumenti: non si potrà fare nulla finché la popolazione non potrà tornare”.

Il motivo dell'accanimento ferocissimo dell'Isis contro i santuari dei pagani (e purtroppo anche contro i loro massimi conoscitori) non va rintracciato, si legge in "Palmira", nella furia iconoclasta verso il lugo dell'adorazione di idoli menzogneri: chi ha fatto saltare il tempio di Palmira e razziato molti siti archeologici del Vicino Oriente ha piuttosto inteso mostrare che "loro sono diversi da noi e che non rispettano ciò che la cultura occidentale venera". Eccome se la venera.

Per Palmira spese parole di ammirazione già il solito grande cronista dell’antichità romana, il temerario Plinio (il Vecchio) nella Naturalis Historia... Palmira è una nobile città per il sito in cui si trova, per le ricchezze del suolo, per la piacevolezza delle sue acque. Da ogni lato distese di sabbia circondano i suoi campi, ed ella è come isolata dal mondo per opera della natura. Godendo di una sorte privilegiata tra i due maggiori imperi, quello dei Romani e quello dei Parti, ella viene sollecitata dall'uno e dall'altro, quando si scatenano le discordie...

Tutti sono rimasti a bocca aperta davanti a Palmira e ora che può essere conosciuta solo indirettamente attraverso fonti preziose come  lo scritto di Veyne, la sua consistenza di miraggio nel deserto si fa ancora più forte. Questo scriveva Agatha Christie negli anni Quaranta del secolo scorso “E poi, dopo sette ore di caldo e di monotono e desolato mondo: Palmira! Io credo che il fascino di Palmira consista in questo: la sua snella, vellutata bellezza si eleva fantastica nel mezzo del bollore della sabbia. E’ leggiadra, favolosa e incredibile come le artificiose impossibilità dei sogni

Palmira è sempre stata una Sposa, lucente e trasognata, ma pur sempre una sposa del Deserto: ciò nonostante era una città moderna, ricca, alla moda eppure tanto legata alla propria identità storica da non confondersi mai con quella greca. Palmira ne restava estranea, spiega Veyne, per il proprio passato, la lingua aramaica, la società, l’attività carovaniera, la religione e molte usanze.  Allo stesso tempo “i palmireni non erano barbari e tali non volevano essere”. Se stessi loro malgrado hanno incantato il mondo anche una volta divenuti sudditi dei Cesari, dotati di carovanieri competenti, un esercito privato e una regina leggendaria, Zenobia effigiata in monete “con il mento da imperatore”, la cui storia trascolora del mito che la vuole parente di Cleopatra, costretta in catene d’oro a Roma dall’imperatore Aureliano, filosofa a Tivoli.

Il sito che i miliziani dell’Isis sono quasi riusciti a cancellare, è stato percorso per tutta la sua lunga storia (Palmira ha 4000 anni)  da fremiti di anticonformismo e multiculturalismo come neanche una moderna metropoli e in esso sono confluiti Aram,  Arabia, Persia, Siria; Palmira ha parlato tutte le lingue. Ne è emblema, indica Veryne,  il bassorilievo del fregio del distrutto tempio di Bel: raffigura una processione di donne avvolte in drappeggi sovrapposti rappresentati come un arabesco secondo una tecnica inedita dove alcuni hanno ravvisato i primi elementi di astrattismo della storia dell’arte. “Lo scultore di fronte a tante possibili stilizzazioni ispirate all’Oriente e all’Occidente ha deciso di inventarne una nuova”. Se una terza via, altrettanto splendente e immaginifica,  fosse data e percorsa anche oggi forse Palmira, Aleppo, Damasco,  non rimarrebbero relegate alla artificiosa impossibilità dei sogni.

“Conoscere una sola cultura, la propria, significa condannarsi  a vivere una vita soltanto, isolati dal mondo che ci circonda” la chiosa in postfazione di Veyne è quasi un epitaffio.

Silvia Veroli

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