SCIENZA E RICERCA

Mani di chirurgo, mani di robot

Dodicimila anni fa la prima trapanazione cranica. Negli anni Ottanta del secolo scorso l'introduzione della laparoscopia. Allora quei microfori, che sostituivano quando possibile le lunghe cicatrici, erano sembrati magia. Oggi il progresso della tecnologia sta venendo ulteriormente in aiuto della chirurgia tanto che in futuro – un futuro forse non troppo lontano – ad operare potrebbero essere i robot. A raccontare il nuovo passo compiuto dalla chirurgia mini-invasiva e le prospettive all'orizzonte è Andrea Pietrabissa, professore di chirurgia generale all’università di Pavia e direttore della chirurgia generale II al Policlinico San Matteo. Pietrabissa è stato un pioniere della chirurgia laparoscopica. Nel 2000 ha introdotto in Italia tale tecnica per il prelievo di rene da donatore vivente e cinque anni fa ha eseguito, per la prima volta nel nostro Paese, un’estrazione “senza tagli” dell’organo. 

“La chirurgia robotica è fra noi da una decina d'anni – spiega –. È sinonimo di chirurgia virtuale nel senso che non si opera guardando o toccando direttamente il paziente. I sensi sono tutti filtrati, sia in ingresso che in uscita, da una macchina che impropriamente viene definita robot, in realtà si tratta di telemanipolatori. Strumenti controllati dal chirurgo, che invece di essere al tavolo operatorio è a qualche metro di distanza o addirittura dall'altra parte del pianeta”. 

Se da un lato può spaventare che non ci sia più il contatto fisico tra il paziente e il chirurgo, dall'altro il professore rassicura sulle ricadute positive che ne possono derivare: “Sebbene non si veda il campo operativo con gli occhi, ma attraverso una telecamera, quest'ultima può cogliere cose che l'occhio umano non percepisce, grazie all'uso per esempio degli infrarossi o dei raggi X. Inoltre l'utilizzo di uno strumento comandato permette di filtrare i tremori e di ottenere delle riduzioni di scala, ossia di tradurre gli ampi movimenti della mano in piccolissimi movimenti degli strumenti che adoperiamo. Questi sono alcuni vantaggi che già esistono, ma molti altri sono dietro l'angolo”.

A detta del medico, oggi il 40% delle patologie di chirurgia generale potrebbe essere trattato con la chirurgia mini-invasiva. Certo è, precisa, che “man mano che la difficoltà dell'intervento cresce, la percentuale di pazienti che può beneficiare di questa tecnica si riduce perché non tutte la patologie possono essere trattate a questo modo e non tutti i chirurghi hanno ancora acquisito la necessaria esperienza per fare questo”.

Di qui a parlare, un giorno, di chirurgia personalizzata come per la medicina ce ne vorrà. “Ancora oggi si tende a proporre lo stesso intervento chirurgico standardizzato a tutti i pazienti che hanno una malattia con quel dato nome – prosegue Pietrabissa –. La fatica che ha fatto la chirurgia negli anni passati è stata quella di definire lo standard da cui non bisogna discostarsi per ottenere un intervento efficace. Ma le malattie di interesse chirurgico, anche se hanno ancora oggi lo stesso nome, sono diverse ed è diversa la risposta del singolo individuo quando si ammala. Anche noi chirurghi, dunque, sempre più in futuro cercheremo di fare interventi specifici per il singolo paziente, togliendo solo quello che è strettamente necessario per ottenere la guarigione di quel paziente e risparmiando tessuti che magari oggi vengono tolti. In questo ci aiutano le nuove tecnologie perché è possibile utilizzare dei traccianti intraoperatori che consentono di distinguere le cellule sane da quelle malate che devono essere asportate”.

Più cauto sugli sviluppi della chirurgia robotica nell'imminente futuro è Francesco Sartori,  fino al 2011 professore di chirurgia toracica e direttore del dipartimento di scienze cardiologiche toraciche e vascolari all'università di Padova, autore di oltre 10.000 interventi di chirurgia toracica e di più di 300 pubblicazioni scientifiche. Due i motivi di perplessità: il costo e il numero esiguo di persone che potrebbe beneficiarne.

“Parlare di passaggio dalla vecchia chirurgia a quella robotica è un azzardo perché non è detto che quest'ultima debba essere quella del futuro. Se guardiamo alla situazione attuale, la chirurgia robotica non si può diffondere per un problema di fondi. Sarebbe una chirurgia costosa e insostenibile sia per l'acquisto del robot sia per la sua manutenzione. In Italia sono pochissimi gli istituti che hanno la possibilità di avere un'apparecchiatura del genere. Inoltre sarebbe una chirurgia di élite, rivolta solo a quella parte della popolazione che se la può permettere. Ciò potrebbe scatenare addirittura dei conflitti sociali. Certo, la chirurgia robotica consente un miglior risultato estetico e dimissioni più rapide, ma credo che la chirurgia tradizionale continuerà per un bel pezzo a fare la sua strada”.

Il professor Sartori non ci sta, infine, a sentir parlare di medicina personalizzata: “Non capisco cosa voglia dire, anche adesso si fa. Si ha una persona davanti che ha determinate caratteristiche, si sa che alcune cose si possono fare e altre no. Anche l'intervento è personalizzato: il chirurgo asporta ciò che deve essere asportato e cerca di ricostruire le cose al meglio”. 

“Non vedo quindi come si possa parlare di medicina personalizzata tramite l'uso del robot – conclude – se non si ricorre anche alla branca avveniristica delle nanotecnologie che consentiranno degli sviluppi in futuro, in parte imprevisti, ma che dovranno essere tutti verificati”. Insomma, solo il tempo e i progressi tecnico-scientifici potranno dare una risposta. 

Elena Trentin

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