SOCIETÀ

La città dopo la pandemia: uno sguardo al passato e al futuro

«… La città è qualcosa di più di una congerie di singoli uomini e di servizi sociali, come strade, edifici, lampioni, linee tranviarie, telefoni e via dicendo; essa è anche qualcosa di più di una semplice costellazione di istituzioni e di strumenti amministrativi, come tribunali, ospedali, scuole, polizia e funzionari pubblici di vario tipo. La città è piuttosto uno stato d'animo, un corpo di costumi e di tradizioni, di atteggiamenti e di sentimenti organizzati entro questi costumi e trasmessi mediante questa tradizione. In altre parole, la città non è semplicemente un meccanismo fisico e una costruzione artificiale: essa è coinvolta nei processi vitali della gente che la compone; essa è un prodotto della natura, e in particolare della natura umana.» (Park R.E., Burgess E.W. e McKenzie R.D., The City, University of Chicago Press, Chicago, 1915; edizione italiana: La città, Edizioni Comunità, 1979)

Cos’è una città? È stata ed è tante cose diverse. Intellettuali, sociologi, geografi, urbanisti e tanti altri hanno cercato di spiegarlo, spendendo innumerevoli pagine. In modo elementare, possiamo dire che essa è un luogo, più o meno grande, organizzato con elementi costruiti e aree scoperte affinché gli esseri umani possano “viverci” nel modo “migliore” possibile.

L’uso delle virgolette sta ad intendere che non è univoco il significato di “vivere” e di “migliore”. Evidentemente ci si riferisce alla vita urbana che, oltre a garantire il soddisfacimento dei bisogni primari, ovvero quelli necessari alla sopravvivenza della specie umana, deve garantire i bisogni indotti dai modelli sociali del periodo in cui si vive.

Si può affermare con tranquillità che la città è l’habitat elettivo degli esseri umani, visto che dei quasi otto miliardi di abitanti che popolano il pianeta, più della metà vive in aree urbane che vanno dalle oltre trenta megalopoli di oltre dieci milioni di abitanti a piccoli nuclei urbani che non raggiungono neanche i mille abitanti (come è riportato in: UN-Habitat, Population Data Booklet, Global States of Metropolis 2020). 

Con un breve approssimativo calcolo si ricava che, attualmente, ogni abitante della terra ha a disposizione poco meno di due ettari di suolo, comprensivi di deserto, selve, ghiacciai, ecc. ovvero di aree non confortevoli per la vita umana; infatti, la gran parte della popolazione mondiale vive concentrata sul 10% della superficie terrestre. Se le epidemie si propagano per contagio, diretto o indiretto, è evidente che maggiore è la concentrazione di persone, maggiore è la diffusione di un morbo. In un mondo in cui scambi quotidiani internazionali e intercontinentali sono in numero molto elevato, l’epidemia si trasforma automaticamente in pandemia globale. Se si pensa alle pandemie storiche, si può notare che esse, a meno di quella di Atene (V sec. a.C.), hanno avuto corso durante i periodi imperiali, ovvero quando le persone godevano di un certo grado di spostamento in territori più o meno ampi ed erano presenti città più grandi e più affollate delle poleis.

Le prime pandemie di “peste”, documentate, si verificarono, la prima, nel 165 d.C., la cosiddetta peste di Galeno (o peste Antonina o Aureliana) che coinvolse i territori dell’impero, Roma compresa e, la seconda, sotto l’impero romano d’oriente di Giustiniano tra il 542 e il 546 d.C., mietendo moltissime vittime nei territori che circondavano il Mediterraneo e il Mar Nero (si vedano, ad esempio: Marcone A., La peste Antonina: testimonianze e interpretazioni, Rivista Storica Italiana 803-819, anno 114, III, 2002; Alfani G. e Melegaro A., Pandemie d’Italia, Egea Spa, Milano, 2010).

Con la terribile “peste nera”, scoppiata a metà del XIV secolo, i paesi europei videro falcidiato più di un terzo degli abitanti, soprattutto nelle città portuali da cui, comunque, il morbo si propagava anche nell’entroterra (Bergdolt K., La grande pandemia. Come la peste nera generò il mondo nuovo, Libreria Pienogiorno, Milano, 2020). Tra le epidemie dell’epoca moderna, le maggiormente importanti furono: quella di vaiolo nel XVIII secolo, la cui diffusione fu causata dai colonizzatori che trasportavano virus, bacilli e batteri in popolazioni che non ne erano mai venute a contatto; nei primi dell’Ottocento, la grande epidemia di colera che, secondo le diverse stime, nei diversi Stati italiani uccise tra le 150.000 e le 230.000 persone; e, agli inizi del Novecento, la cosiddetta spagnola, propagata dagli spostamenti delle truppe verso i vari fronti di guerra. In entrambi i casi, gli storici calcolano un tasso di mortalità superiore al 30% (Cosmacini G., Storia della medicina e della sanità in Italia, Laterza, Bari, 2010).

Le pandemie citate, e anche quelle non citate, ebbero corso in territori e realtà urbane organizzati in modo molto differente dai nostri e, ovviamente, con livelli scientifici, sanitari e tecnologici non paragonabili a quelli attuali; vanno anche considerati l’inferiore numero degli abitanti del pianeta (le stime della popolazione mondiale sviluppate da Jean-Noël Biraben e dall’ONU, contano non più 250 milioni prima dell’anno mille, e quindi anche negli anni della peste di Galeno e della peste di Giustiniano; 440 milioni nel XIV secolo, all’epoca della peste nera; 770 milioni nel XVIII secolo, negli anni dell’epidemia di vaiolo); un miliardo circa nell’Ottocento, durante le epidemie di colera; 1.800 milioni nei primi decenni del Novecento, negli anni della febbre spagnola), le ridotte densità abitative territoriali e urbane, la diversa organizzazione sociale nonché la discrepanza di accesso alle opportunità urbane che distingueva nettamente le classi ricche da quelle povere, così come molto differente era la qualità di vita tra la popolazione urbana e quella rurale, così come il rapporto tra città e campagna. 

Non è questa la sede per tracciare i diversi scenari territoriali nei vari periodi della storia delle città; basta rinviare ai testi classici, a partire da Lewis Mumford, proseguendo con Jacques Le Goff, con Paul Bairoch e i tanti altri studiosi che hanno affrontato l’argomento. Mi piace però ricordare Marcel Poëte, quando riflette sul fatto che l’essenza della città bisogna ricercarla nella struttura stradale, nelle vie di comunicazione e sul fatto che (negli anni venti del secolo scorso) gli uomini «vivono più uniti per godere i vantaggi del progresso in attesa che lo stesso consenta loro di vivere più lontani senza perderne i benefici» (Introduction à l’urbanisme: l’évolution des villes, la leçon de l’antiquité, Borin, Paris, 1929; edizione italiana: La città antica: introduzione all’urbanistica, Einaudi, Torino, 1958).

Prefigurazione che potremmo dire errata perché, nonostante la distorta concretizzazione della città cablata, l’umanità continua ad addensarsi nelle realtà urbane. Nondimeno, la visione di Poëte potrebbe invece configurarsi in un prossimo futuro, quando l’innovazione tecnologica nel settore dei trasporti e della comunicazione a distanza riuscirà a coniugare concretamente il bisogno umano della socializzazione con l’abbattimento della mobilità coatta. Come scriveva Corrado Beguinot (La città cablata un’enciclopedia, Giannini Editore, Napoli, 1989) uno scenario del genere implica però che l’innovazione tecnologica non sia volano di ulteriori inutili consumi ma, viceversa, contribuisca a elevare la qualità della vita e della vita urbana.

La città nella storia è sempre stata lo specchio semantico-morfologico del potere, intendendo con “potere”, il soggetto – o la classe dominante – che, in un dato momento storico, decideva le regole sociali e le conseguenti regole dell’organizzazione urbana. Dalla civiltà monumentale del faraone, alla polis degli uomini, alla pax romana, alla città-convento e a quelle del mercante, della chiesa, del principe, del monarca assoluto, del primato dell’industria, del welfare ecc., la scena urbana rappresenta e simboleggia i differenti modi di vivere e di percepire lo spazio in cui si vive; per dirla alla Geddes: «la città è più che un luogo nello spazio, è un dramma nel tempo» (Cities in evolution, William Norgate, London, 1915; edizione italiana: Città in evoluzione, Il Saggiatore, Milano, 1970), un continuo divenire della messa in scena, seria e farsesca, della vicenda umana.

L’urbanistica e gli urbanisti sono stati al servizio del potere o, viceversa, lo hanno contrastato, a volte anche con la presunzione di sostituirsi ad esso, con la convinzione che la personale visione fosse la migliore delle scelte possibili. L’incidenza nella realtà urbana è stata però poca cosa, anche quando qualche urbanista ha assunto un ruolo politico-amministrativo nelle stanze del potere decisionale. 

Cosa accadrà dopo l’attuale pandemia mondiale di Covid-19 che ha costretto a mutare stili di vita, modi di lavorare e relazioni sociali? Sia i governi democratici sia quelli di regimi autoritari hanno, con poche differenze, dettato le medesime regole: distanziamento, isolamento, telelavoro e chiusura delle attività ritenute non essenziali. 

La valutazione su cosa sia essenziale e cosa non lo sia, non sempre ha quale fondamento i reali bisogni dei cittadini; nell’economia capitalistica che governa il mondo, pare quasi che la tutela del benessere delle comunità e della salute pubblica sia secondaria, mentre la priorità viene assegnata al consumismo. L’economia di scala che, abbattendo i costi di produzione e se efficacemente governata, avrebbe dovuto consentire a tutti l’accessibilità a prodotti e a servizi necessari, e quindi a una vita soddisfacente, si è rivelata solamente un ulteriore alimentatore di consumi superflui, incrementando la disuguaglianza sociale e l’esclusione di coloro che non sono in grado di accedere al digitale. 

L’attuale pandemia ha reso evidenti gli effetti dell’abbandono del welfare state che nel secolo scorso sviluppava la possibilità di una vita dignitosa per tutti i cittadini. Abitazione, assistenza sanitaria e istruzione erano considerati diritti irrinunciabili (come riportato negli Artt. 24, 25 e 26 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948; il trasporto non è presente se non indirettamente, quale libertà di movimento, nell’Art. 13); il bilancio dello Stato-Nazione con un sistema di tassazione proporzionale determinava le condizioni per ridurre il disagio dei soggetti più deboli e per attivare gli ascensori sociali. L’interdipendenza economico-finanziaria e la globalizzazione non disciplinata del mercato sono stati i principali fattori innescanti la crisi del welfare. 

È tautologico affermare che l’organizzazione urbana sarà differente a seconda che la società sia basata sul welfare o lasciata all’utopica autoregolamentazione del libero mercato.

In una civiltà integrante e non escludente, il piano urbanistico, anche mediante il recupero dei volumi edilizi esistenti, dovrà predisporre le abitazioni di edilizia residenziale pubblica in maniera diffusa e non nella concentrazione ghettizzante che ha caratterizzato i decenni di produzione dei quartieri di edilizia economica e popolare. È utile ricordare il cambio di denominazione, specchio del cambio delle politiche sulla casa: l’edilizia economica e popolare diventa edilizia residenziale pubblica (più politicamente corretto?) e poi, con la definitiva abdicazione da pubblico servizio, si trasforma nella subdola edilizia residenziale sociale.

Un processo simile si è avuto anche nel settore sanitario, spostando verso il privato e connotando quale azienda un servizio che deve essere imprescindibilmente pubblico e che non può essere informato da logiche di bilancio. Se negli anni settanta in ognuno dei quartieri cittadini erano presenti consultori e ambulatori (la cosiddetta medicina territoriale) e i pronto soccorso degli ospedali (diffusamente dislocati) riuscivano a fornire la dovuta assistenza senza dovere versare alcun ticket, … tutto questo non esiste più. In virtù della razionalizzazione della spesa (malthusiana?) è stata depauperata la prima assistenza, i medici di base hanno un numero insensato di pazienti da seguire, molti ospedali sono stati chiusi e le liste di attesa hanno allungato i tempi a dismisura. Chi se lo può permettere si rivolge alla medicina gestita dal settore privato.

Discorso analogo per il servizio scolastico, nonostante l’età dell’obbligo (poi diritto-dovere) dai 14 anni (L. 1859/1962) sia stata elevata, progressivamente, a 15 anni nel 1999 (L. n.9) a 16 anni nel 2006 (L. 296). In nome della libertà di scelta per l’istruzione dei figli, il settore privato, con il cambio – non solamente lessicale – da parificato a paritario, ha sempre affiancato quello pubblico, godendo anche di finanziamenti dello Stato. Nonostante il calo costante delle nascite nel nostro Paese a partire dagli anni sessanta, e quindi della progressiva diminuzione della popolazione in età scolastica (anche se in parte compensata dall’aumento dell’età dell’obbligo), le quantità e la qualità di plessi e aule scolastiche non hanno mostrato un visibile miglioramento. La situazione diffusa delle carenze logistiche del sistema scolastico, insieme all’inadeguatezza del servizio di trasporto, ha infatti sconsigliato il funzionamento delle scuole durante la fase pandemica.

Il percorso è abbastanza diverso per il servizio di trasporto pubblico, in quanto, con argomentazioni varie, non è considerato un servizio da fornire gratuitamente ai cittadini. Va però evidenziato che, nel mondo, ci sono state, e sono in atto, diverse sperimentazioni in tal senso (con in testa Tallin, in Estonia, e Aubagne, in Francia, ci sono attualmente in Europa una cinquantina di città che erogano il trasporto in modo generalizzato gratuito o limitato a specifiche fasce orarie e/o categorie di utenti, come studenti, disabili, anziani ecc.; molto più numerose sono le realtà urbane di questo tipo negli USA e in Australia) che dimostrano non solo che il trasporto gratuito è economicamente sostenibile ma che, soprattutto, riduce significativamente l’inquinamento urbano, contribuendo alla sostenibilità ambientale e alla qualità sociale. 

A meno del servizio dei trasporti collettivi, la casa, la scuola e la sanità hanno un riscontro diretto nel Piano Urbanistico, cui è riservato il compito di dimensionare e localizzare i servizi pubblici. Come è noto, la normativa che regola la dotazione dei servizi è ancora quella del 1968 (D.I. 1444), fatte salve le eventuali modifiche delle leggi regionali di governo del territorio. Sebbene datata, va ricordato che nelle aree residenziali, per ogni cittadino deve essere garantita una dotazione di 18 metri quadrati, distribuiti tra assistenza prescolastica, scuola dell’obbligo e attrezzature di interesse comune (tra cui quelle sanitarie) oltre al verde pubblico attrezzato e ai parcheggi. Per molti di questi servizi sociali, derivati dalla teoria della neighborhood unit (si veda: Perry C., New York Regional Survey, Vol. 7, 1929), erano stati anche fissati i corrispettivi raggi di influenza e bacini di utenza (Circolare LL.PP. 1425/1967); va notato però che, anche quando le aree erano correttamente predisposte dai Piani, l’attuazione è quasi sempre stata deficitaria o, comunque, molto in ritardo rispetto alla costruzione dei volumi residenziali. L’approssimazione nel controllo dell’attuazione degli strumenti urbanistici e, più in generale, del controllo del territorio hanno condotto le nostre realtà urbane a quello che sono attualmente e a mostrare tutti i punti di debolezza nel rispondere efficacemente alle esigenze della epidemia da covid-19.

Durante il lungo periodo di questa epidemia, il dibattito si è accentrato maggiormente sulla debolezza strutturale e gestionale del sistema sanitario, della medicina territoriale e della scuola e, per quest’ultima, sono emerse le carenze dei servizi del trasporto collettivo e della rigidità degli orari che regola le diverse attività. Non si entra qui nel merito della riforma costituzionale del 2001 del Titolo V e del conseguente rabberciato federalismo regionale, dal quale pure dipendono molte delle problematiche e dei problemi che stiamo attraversando, né tanto meno si possono affrontare in questa sede l’inadeguatezza di gran parte della classe politica e dell’imprenditoria del nostro Paese (e non solo) unitamente all’incidenza del sistema corruttivo, della criminalità organizzata, dell’evasione fiscale ecc. Del resto, questo è il Paese che ostracizzò l’allora ministro dei lavori pubblici Fiorentino Sullo, quando cercò, con la proposta di legge di riforma urbanistica del 1962, di regolare la rendita fondiaria, mettere i proprietari delle aree in una condizione paritaria e porre le condizioni per un’efficace pianificazione urbanistica.

Come si è detto, non si affronta in questa sede la situazione politica, ma è da tutto ciò che dipenderà la condizione delle nostre città dopo la pandemia, in quanto i fondi previsti dal cosiddetto Recovery Fund o dal Meccanismo Europeo di Stabilità (MES) saranno gestiti da questa classe dirigente e in questo contesto sociale.

Insieme a casa, scuola, sanità e trasporti o, meglio, sotteso a tutti e interdipendente con essi, c’è la problematica ambientale, intimamente legata ai principi dello sviluppo sostenibile che, sempre più, tende ad essere uno slogan privo però di effetti concreti. È un bene che giovanissimi cittadini, sulle orme dell’avanguardia di Greta Thunberg, siano sensibili al cambiamento climatico, chiedendo di cambiare stili di vita per garantire il futuro del pianeta. Tra i gli obiettivi dell’UN Agenda 2030, l’11° recita «Rendere le città e gli insediamenti umani inclusivi, sicuri, duraturi e sostenibili «e i “traguardi” in cui è articolato ognuno degli obiettivi, riprendono molti dei concetti già enunciati nelle varie Agende che, a partire dalla United Nations Conference on Human Environment (UNCHE) di Stoccolma (5-15 giugno 1972), i governi sottoscrivono ma poco traducono in azioni operative. Senza ricorrere al saggio di Serge Latouche, Petit traité de la décroissance sereine (Mille et une Nuits, Paris, 2007), nessun governo del mondo ha osato muoversi in una direzione diversa da quella della crescita economica illimitata e di consumi esasperati e spesso superflui. Come già accennato, anche durante la pandemia l’attenzione appare rivolta a evitare la riduzione dei consumi, rischiando la salute e la vita delle persone in virtù dello shopping natalizio. 

Le città, dopo la pandemia, rischiano di proseguire la crisi in cui versano da decenni. La responsabilità è anche di normative di governo del territorio, improntate al massimo liberismo; esse consentono obiettivi generici e fumosi mentre, al contrario, dovrebbero chiaramente rappresentare gli interessi in gioco e i vantaggi e gli svantaggi sociali che ognuna delle possibili scelte produce. Ad esempio, la liberalizzazione delle localizzazioni commerciali (D.L. 114/1998) per le ridotte superfici di vendita ha trasformato, omologandoli, i centri storici in bazar del ludico e della ristorazione di bassa qualità e, di contro, i quartieri meno appetibili sono stati privati dei necessari esercizi di vicinato. Mentre il passaggio dall’assistenza mutualistica al Servizio Sanitario Nazionale (istituzione del SSN e delle USL, L. 833/1978) andava a sancire un’equità di trattamento per tutti i cittadini, la successiva trasformazione da USL ad ASL (istituzione delle Aziende Sanitarie Locali, D. Lgs. 502/1992), introdusse l’ossimoro della logica imprenditoriale a un servizio essenziale.

Forse sarebbe necessario ribadire la differenza che distingue l’istituzione pubblica dall’impresa: la prima deve perseguire il benessere generale mentre la seconda persegue il giusto profitto, contemplando anche il connaturato rischio di impresa che gli imprenditori paiono avere dimenticato e ritengono debba ricadere sui dipendenti.

Non si chiede certo di ripristinare il passato concetto di assistenzialismo né di ritornare alla storica arte urbana, ma qualche vecchia regola andrebbe forse ripresa, così come ne andrebbero introdotte di nuove, necessarie alle innovate esigenze.

Un banale esempio: piani e regolamenti edilizi non possono trascurare, per gli spazi pubblici e per quelli privati, la necessità di aree per la raccolta differenziata dei rifiuti. Non solo non vanno ripetuti gli errori del passato, ma è decisamente arrivato il momento di correggere le scelte fatte in momenti in cui si era convinti di potere dominare la natura senza che questa chiedesse il conto; un esempio tra tanti: la regimazione, il tombamento o l’arginamento forzato dei corsi d’acqua che, oramai periodicamente, determinano danni e vittime in piccole e grandi città. Sarebbe anche il caso di ripristinare i rapporti dimensionali e qualitativi dei necessari servizi di quartiere. Detto in altri termini, bisogna garantire l’accessibilità spaziale e sociale alle attività e alle opportunità della vita urbana: l’accesso sociale è una scelta politica alla quale consegue un coerente piano urbanistico.

La pandemia in atto riporta nell’attualità anche il tradizionale rapporto città-campagna, con dinamiche affatto simili a quelle che lo avevano caratterizzato all’avvento della città prodotta dalla rivoluzione industriale. I dati dicono che il trasferimento dalle metropoli verso i piccoli borghi rurali ha ricevuto una sostanziale spinta dal covid-19; ciò è avvenuto: per allontanarsi dalla massima possibilità di contagio, per le possibilità offerte dal telelavoro e per le limitazioni imposte alla vita sociale dal susseguirsi dei lockdown. Se non si può fruire delle opportunità offerte da una grande città, perché continuare a viverci, subendo solamente gli svantaggi dell’inquinamento, della confusione, del traffico, ecc.?

Gli esperti del settore hanno spiegato che epidemie da nuovi virus saranno molto probabili e frequenti anche nel prossimo futuro, pertanto va fatta un’attenta riflessione sullo scenario territoriale che va configurandosi; non va trascurato però che disponibilità di energia e rapporti interpersonali sono il motore dell’innovazione e del cambiamento che, si ribadisce, non si coniuga obbligatoriamente in crescita economica continua. In natura non esistono organismi ed ecosistemi in crescita continua; viceversa, la natura si evolve e si trasforma con una continua successione ecologica (si veda ad esempio: Walker L.R., Walker J. e Hobbs R.J. Linking restoration and ecological succession, Springer, New York, 2007) e, infatti, molti recenti studi urbanistici sperimentano la biomimesi urbana.

In attesa di politiche globali e locali per risolvere le cause del cambiamento climatico, la città dopo la pandemia dovrà attrezzarsi per periodiche comparse di dannosi virus. L’urbanistica moderna nasceva per risolvere problemi di igiene urbana, l’urbanistica del futuro dovrà attrezzarsi per una innovata igiene urbana e salute sociale, nella quale bisogna anche comprendere la convivenza con le genti di altre culture. Ma le nuove regole del piano urbanistico potranno discendere solamente da scelte politiche orientate a perseguire una vita urbana sicura, sostenibile, solidale, che garantisca l’accessibilità (digitale compreso) a tutti i cittadini.

 

© 2018 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012