SOCIETÀ

Città e pandemia. Percorsi per fronteggiare le disuguaglianze urbane

Disuguaglianze urbane e modello neoliberista

L’esperienza della pandemia ha evidenziato con forza, in primo luogo, la presenza di profonde disuguaglianze urbane. Ciò che la pandemia ci ha ricordato, facendolo pesare fortemente nella vita di tante persone, è che le città sono un luogo di disuguaglianze, urbane e sociali. Una vasta letteratura ha più volte sottolineato tale dimensione e recenti studi (Lelo K., Monni S. e Tomassi F., 2019, Le mappe della disuguaglianza. Una geografia sociale metropolitana, Donzelli, Roma) lo hanno ben illustrato anche nelle nostre città occidentali, che pure sono ben attrezzate e dotate di servizi. Le disuguaglianze, d’altronde, non sono un effetto della pandemia, ma sono sistematicamente prodotte nei contesti urbani e sono un fattore proprio, sostantivo, dell’attuale modello di sviluppo.

Il secondo aspetto rilevante da cui partire è che la pandemia che abbiamo conosciuto non è un fatto eccezionale, dovuto a un problema che non si ripeterà più nel futuro e che, debellato una volta per tutte, non si ripresenterà più. La pandemia è anche, se non soprattutto, l’effetto di un sistema produttivo primario industrializzato ed artificializzato, e di una utilizzazione distorta delle risorse naturali, senza alcuna considerazione dei cicli naturali e degli equilibri ecosistemici che caratterizzano il sistema ambientale. È quindi direttamente connessa alle distorsioni e alle esternalità dell’attuale modello di sviluppo.

Affrontare il futuro e avviare percorsi

La maggior parte degli interventi che si succedono su questi temi si concentrano spesso su un’analisi degli effetti (sociali, sanitari, economici, urbani, ecc.) della pandemia e sulla loro distribuzione spaziale, sollevando giustamente numerosi e importanti problemi. Accanto a queste analisi penso sia importante cominciare a sviluppare percorsi con cui affrontare la situazione, andando anche al di là di alcuni slogan che propongono soluzioni in molti casi difficilmente praticabili nei nostri contesti urbani.

Questa discussione, ad esempio, è rimbalzata sul tema della “città a 15 minuti”, proposta (peraltro interessante) nata da ricercatori della Sorbona e raccolta dalla municipalità parigina. Alcuni ricercatori romani (cfr. il blog di Enrico Puccini) hanno mostrato, anche un po’ ironicamente, che la città attuale, almeno Roma, soprattutto per chi vive nei quartieri pubblici, è una “città a 80 minuti”. La realizzazione di una “città a 15 minuti” sarebbe sicuramente interessante, ma richiede investimenti imponenti e adeguate politiche pubbliche che ne ribaltino l’organizzazione spaziale. Probabilmente nel contesto parigino, dove sembra che tali investimenti ci siano, è possibile perseguire questi obiettivi, mentre in altri contesti questo appare più difficile. Né sembra che, nel contesto globale, emergano forti intenzionalità politiche e adeguate politiche pubbliche di ripensamento dell’organizzazione della città. Soprattutto, questo non deve far dimenticare i problemi strutturali e l’interpretazione neoliberista della città, che non si risolvono con le sole attrezzature fisiche.

La struttura della città contemporanea alla prova della pandemia

Per illustrare alcuni percorsi intrapresi è utile riprendere sinteticamente alcune considerazioni sulla città contemporanea. L’esperienza della pandemia ha indotto numerose riflessioni sulla struttura anche fisica della città e sulla sua organizzazione spaziale, nonché sulle loro implicazioni in termini di disuguaglianza spaziale e di problemi di carattere sociale. 

Vi sono state molte difficoltà a sostenere la quarantena, in ragione delle differenti situazioni personali e sociali, di contesto territoriale, di condizioni materiali della vita urbana:

  • Diseguaglianze economiche, dovute essenzialmente alla disponibilità di ricchezza e al reddito e, quindi, indirettamente alle condizioni di povertà, del lavoro (la precarietà del lavoro, che si è tradotta spesso in un suo azzeramento durante la pandemia, ha costituito un problema rilevante), ecc.
  • Differenti possibilità materiali per sostenere il lockdown, in termini di disponibilità di reti informatiche, di dispositivi elettronici e telematici (ovvero di una loro quantità adeguata in rapporto al numero degli utilizzatori contemporanei), ma persino di attrezzature per il tempo libero e per l’attività fisica in casa, ecc.
  • Differenti disponibilità di spazi domestici, anche in rapporto alla contemporaneità delle attività. In questo caso conta la dimensione della casa, la disponibilità di spazi autonomi, il numero di vani in rapporto alla composizione delle famiglie e dei nuclei che vi abitano, ecc., nonché la salubrità e la qualità edilizia ed architettonica della propria abitazione (problema più evidente nei quartieri di edilizia residenziale pubblica).
  • Differenti disponibilità di servizi, a cominciare da quelli sanitari ovviamente (di cui si è discusso molto), ma poi anche quelli relativi al commercio o alle attività socio-assistenziali o, infine, al trasporto pubblico (per chi era obbligato comunque a muoversi).
  • Differenti condizioni del contesto territoriale, in termini ad esempio di bellezza e piacevolezza degli spazi, disponibilità di aree verdi e spazi pubblici, ecc. È il tema classico della disuguaglianza spaziale nei contesti urbani che viene evidenziato ancora una volta e che abbiamo banalmente sperimentato anche nella limitazione delle possibilità di passeggio uscendo di casa in epoca di lockdown. C’era chi aveva a disposizione il giardino di casa o gli spazi verdi e/o pubblici qualificati del quartiere e chi, vivendo in un contesto di degrado fisico e urbano delle attrezzature comuni, non era nelle condizioni favorevoli per uscire di casa e non era certo invogliato in questo senso.

Questa riflessione si inserisce nel tema più generale dell’adeguata distribuzione territoriale dei servizi, delle opportunità e di tutto ciò che fa qualità urbana (compresi spazi pubblici, spazi verdi e parchi urbani, qualità del paesaggio naturale e urbano, ecc.), sia in termini di dotazione sia in termini di qualità e fruibilità. In poche parole, si tratta di un tema di “accessibilità della città” (Criconia A., a cura di, 2019, Una città per tutti, Donzelli, Roma), ovvero di accessibilità a tutte le opportunità e a tutte le componenti che fanno città e urbanità: una declinazione del “diritto alla città” di lefebvriana memoria (Lefebvre H., 1968, Le droit à la ville, Éditions Anthropos, Paris; edizione italiana: 1970, Il diritto alla città, Marsilio Editori, Venezia). 

La necessità di ricorrere agli strumenti digitali e telematici ha favorito e imposto il lavoro a distanza, essenzialmente a casa. In realtà, lo smart working si è rivelato smart soltanto per chi era ed è adeguatamente attrezzato, ha spazi propri adeguati e vive all’interno di quei quartieri ben attrezzati (per esempio, in termini di disponibilità di rete, ecc.).

Analogamente è avvenuto per la DAD, la didattica a distanza. Sappiamo benissimo che molte famiglie non erano adeguatamente attrezzate, soprattutto nei quartieri di edilizia residenziale pubblica. Ad esempio, nel contesto di Tor Bella Monaca, quartiere di edilizia residenziale pubblica nella periferia Est di Roma, ci sono stati picchi di oltre il 30% di studenti che non erano in grado di seguire adeguatamente la didattica a distanza del locale liceo.

Questa situazione, spesso sovrapponendo “presunto smartworking e DAD, o altre attività trasferite a casa mentre prima venivano svolte all’esterno, ha avuto un carattere invasivo nei confronti dello spazio domestico e, quindi, direttamente e indirettamente sulla domesticità, lo spazio delle relazioni private, ma anche sui tempi e i modi delle relazioni familiari e della vita privata e personale, con i noti problemi di convivenza che si sono registrati, anche in maniera drammatica. Ha fatto sì che molti problemi della città, in realtà, si sono riversati sullo spazio domestico, confermando ancora di più il carattere neoliberista della città che mette al lavoro il sociale e funzionalizza il privato. Ha marcato ancora una volta una differenza tra chi è nelle condizioni di sostenere queste situazioni (la soluzione privatistica – e non sociale o solidale – ai problemi) e chi non ha questa possibilità, tornando ancora una volta a marcare delle disuguaglianze che, oltre che sociali, sono più propriamente spaziali, e che spesso sono difficili da identificare, registrare e valutare, proprio perché complesse e fuori dai canoni ordinari di classificazione che usiamo tradizionalmente.

Abbiamo avuto importanti effetti anche sull’uso dello spazio pubblico. Il distanziamento lo ha reso poco praticabile e tendenzialmente da evitare per motivi di sicurezza.

Chiaramente lo smart working ha avuto anche degli effetti “positivi”, riducendo la necessità di mobilità (soprattutto per i lavori non manuali). Questo ha avuto benefici effetti sul traffico e sull’inquinamento atmosferico, oltre che, per le economie di alcune imprese, che ne hanno colto subito gli effetti positivi, riorganizzandosi di conseguenza. La ripresa delle attività in presenza, e la ridotta possibilità (o il rischio) di utilizzazione del trasporto pubblico, hanno in realtà riportato ad elevati livelli di congestione (se non addirittura aumentandoli in alcuni contesti urbani), sottolineando il problema strutturale dell’inadeguata organizzazione urbana, che appunto incentiva la mobilità ed in particolare quella privata su gomma. Le soluzioni individuali, come il monopattino elettrico (peraltro utilizzabile solo sul corto raggio di spostamento), pur utili, non rappresentano certo una soluzione al problema strutturale. Ancora una volta viene marcata una differenza, che rimanda a una disuguaglianza, e che sottolinea il carattere individualistico incentivato dalle attuali strutture urbane, tra chi se lo può permettere (e si muove in auto) e chi non se lo può permettere (e si muove col mezzo pubblico, subendo anche il maggior rischio sanitario, oltre l’incremento del disagio). L’opportunità positiva che abbiamo sperimentato di ridurre la mobilità deve essere però colta e indurre ad un ripensamento dell’organizzazione delle nostre città.

Socialità

La riduzione e gli impedimenti della socialità, se non il suo azzeramento, dovuti alla pandemia, ne hanno fatto percepire e riconoscere più fortemente il valore profondo e il bisogno irrinunciabile, a fronte di un modello neoliberista che punta su una società prevalentemente individualista. Bisogna evidentemente ricreare le condizioni di una piena socialità. È chiaro che questo è un compito difficile e forse un po’ lontano per l’urbanistica, ma deve rimanere come obiettivo cui mirare.

Officine municipali

Per dare seguito all’intenzione iniziale di fornire alcune possibili linee di azione si dà qui conto di un percorso sviluppato a diversi livelli nel contesto romano. Sebbene ancora non abbia portato a realizzazioni concrete, esso fornisce alcune indicazioni utili, proponendosi come politica complessiva anche al di là della risposta ai problemi sollevati dalla pandemia.

Il percorso trae spunto da quanto illustrato precedentemente, cioè dai conflitti d’uso degli spazi privati e familiari in rapporto alle attività lavorative e al mondo domestico, da una parte, e dall’opportunità di riorganizzare la mobilità, dall’altra. La proposta emersa è quella delle “officine municipali”, sviluppata nell’ambito di un gruppo di lavoro che ha coinvolto il CRS – Centro di Riforma dello Stato e i sindacati (soprattutto la CGIL) e che si concretizza in termini di luoghi condivisi per il lavoro, organizzati territorialmente (ad esempio con riferimento ai quartieri), dove possono trovare spazio sia lavoratori singoli che gruppi di lavoratori della stessa azienda o struttura. Si noti che diverse aziende hanno espresso interesse verso questo tipo di soluzioni, una forma di organizzazione decentrata del lavoro e dell’azienda che permetterebbe indubbi risparmi nella gestione di grandi strutture. La proposta delle “officine municipali” intende, da una parte, alleggerire la pressione sugli spazi domestici e, dall’altra, non comportare spostamenti di lungo raggio. Questo comporta una maggiore comodità per il lavoratore, ma ha anche un evidente effetto positivo sulla mobilità urbana, riducendo (per quanto possibile) i grandi flussi a scala urbana, e con il beneficio indiretto in termini di maggiore sicurezza rispetto alla concentrazione degli utenti nei mezzi di trasporto pubblico.

La Regione Lazio si è mostrata interessata alla proposta e l’ha fatta propria, inserendo uno specifico articolo nel collegato alla finanziaria regionale approvato in agosto. Due sono le forme di sostegno rilevanti che ne emergono. La prima mette a disposizione delle potenziali “officine municipali” eventuali spazi di proprietà regionali attualmente inutilizzati. La seconda indica alcune forme di sostegno economico, principalmente incentrate sulla definizione di priorità nell’ambito dell’utilizzazione dei fondi strutturali europei.

Si tratta di una sorta di coworking su base pubblica. La gestione dovrà essere condotta in maniera collaborativa tra gli operatori che vi sono impegnati, ma con una presenza del “pubblico”. Si tratta evidentemente anche di luoghi dove possa trovare spazio un ritorno alla socialità ordinaria e quotidiana.

Ripensare l’urbano. Periferie come pezzi di città

I ragionamenti precedenti sollecitano un ripensamento della città e del senso dello spazio, peraltro agganciandosi al dibattito sulle periferie. Gli studi sulla planetary urbanization (Brenner N., ed., 2014, Implosions/Explosions. Towards a Study of Planetary Urbanization, Jovis, Berlin, e tanti altri) generalmente si limitano all’illustrazione anche critica del fenomeno insediativo globale. Non si tratta però soltanto di un problema di organizzazione insediativa; si tratta, piuttosto, di stimolare una riflessione sul senso della città e sulle condizioni abitative. Dietro questi processi globali si coglie un generale processo di “periferizzazione del mondo” (Cellamare C., 2020, Abitare le periferie, Bordeaux Edizioni, Roma) e di mercificazione della città (Brenner N. and Theodore N., eds., 2002, Spaces of Neoliberalism. Urban Restructuring in North America and Western Europe, Blackwell Publishing, USA; Brenner N., Marcuse P. e Mayer M., eds., 2012, Cities for People, not for Profit. Critical Urban Theory and the Right to the City, Routledge, London), in cui questo modello di sviluppo è tendenzialmente indifferente ai luoghi (Magnaghi A., 2020, Il principio territoriale, Bollati Boringhieri, Torino; Agostini I., 2015, Il diritto alla campagna. Rinascita rurale e rifondazione urbana, Ediesse, Roma), li funzionalizza alle proprie esigenze e, quando non servono, li “scavalca” e li marginalizza. Il tema è quindi piuttosto ritrovare un ruolo e un senso a ogni contesto insediativo (Scandurra E., 2007, Un paese ci vuole. Ripartire dai luoghi, Città Aperta Edizioni, Troina), all’interno di un ripensamento del modello di sviluppo. Ogni periferia, o presunta tale, ogni contesto insediativo, sia esso soggetto a un processo di marginalizzazione o meno, deve essere considerato come un pezzo di città, con tutta la sua dignità. Deve essere quindi ripensato e riorganizzato in tutta la sua complessità, sia in termini fisici-spaziali sia in termini di servizi e attrezzature (e di “accessibilità alla città”) sia in termini di ricchezza di vita sociale e culturale e di riconoscibilità, all’interno quindi di processi di ri-appropriazione e ri-significazione.

Centri civici

In linea con quanto appena detto, sia per quanto riguarda la costruzione di percorsi di autonomia delle periferie e dei quartieri in generale sia per quanto riguarda le “politiche per l’autorganizzazione”, ovvero il sostegno alle diverse realtà già impegnate sui territori, bisogna pensare strutture che sviluppino questi orientamenti.

Sulla linea delle “officine municipali” nasce l’idea dei “centri civici”, che rispondono a diverse funzioni e che costituiscono un riferimento per i territori e per le forme collaborative. Variamente denominati (centri polifunzionali a servizio dei territori, poli integrati di promozione dei quartieri, hub dello sviluppo locale, case di quartiere, laboratori delle progettualità condivise, ecc.), i “centri civici” sono stati proposti in diversi contesti di riflessione ed elaborazione romani (cfr. il dossier Abitare di qualità nella metropoli. Per un rilancio dell’azione “pubblica”, disponibile a questo link , elaborato da un gruppo di lavoro dell’Associazione Roma Ricerca Roma, 2021; Cellamare C. e Troisi R., a cura di, 2020, Trasformare i territori e fare comune a Roma, Roma), e d’altronde trovano riscontro nell’idea di Agenzia sociale di quartiere avanzata da Urban@it (Urban@it, 2020, Quinto Rapporto sulle città. Politiche urbane e per le periferie, il Mulino, Bologna), così come in numerose esperienze italiane (ad esempio, le case di quartiere a Torino) e internazionali (ad esempio, le neighbourhood houses canadesi). 

Si tratta di luoghi fondamentali, diffusi nei quartieri (a cominciare da quelli di edilizia residenziale pubblica), finalizzati allo sviluppo delle progettualità e delle azioni, ma soprattutto al dialogo e collaborazione tra soggetti diversi: istituzioni e amministrazioni pubbliche, agenzie ed enti di servizio, abitanti e loro organizzazioni, rappresentanze sindacali, operatori economici. La loro funzione non può essere limitata a un aspetto di “progettazione” (soprattutto fisica), ma si devono progressivamente trasformare in luoghi di riferimento dove non si svolgono soltanto progettualità, ma si gestiscono attività ed iniziative (sociali e culturali), anche di welfare di comunità, come, ad esempio, scuole di lingua per stranieri, nidi e ludoteche locali, cineforum, agenzie di collocamento, centri antiviolenza, o ancora servizi come quelli legati alle attività sportive, o scuole di danza, scuole di teatro, ecc. Sono anche i centri della socialità, dell’incontro. E ancora centri che sviluppano iniziative nel campo del lavoro e delle economie locali (per esempio a sostegno dell’imprenditoria giovanile), permettendo di agganciare le iniziative locali con i grandi processi socio-economici sovralocali. Devono essere luoghi dove si sostengono progettualità e azioni attraverso bandi e finanziamenti pubblici, ma anche luoghi di supporto per la ricerca di finanziamenti. Questi centri polifunzionali devono essere gestiti in forma collaborativa tra istituzioni/amministrazioni locali, abitanti e loro organizzazioni, operatori economici e dei servizi. Sono luoghi che, per le loro attività, possono essere supportati o integrati con piattaforme digitali legate a processi partecipativi (locali o a scala urbana più ampia). Come anche proposto da altri (Giglioni F., 2020, “Organizzare il governo di prossimità”, in AA.VV., 2020, A centocinquant’anni da Roma Capitale. Costruire il futuro della città eterna, Rubbettino, Soveria Mannelli), devono essere luoghi di riferimento per il dibattito pubblico e per la ricostruzione di una politica condivisa, della “democrazia territoriale”. Essi possono permettere anche il riuso di edifici dismessi.

Come per le “officine municipali”, la Regione Lazio si è mostrata interessata al progetto di centri civici e l’ha fatto proprio, inserendo anche in questo caso uno specifico articolo nel collegato alla finanziaria regionale approvato in agosto e proponendo le stesse linee di sostegno.

Il gruppo di lavoro del DICEA-Dipartimento di Ingegneria Civile Edile e Ambientale di Sapienza Università di Roma ha poi inserito sia le “officine municipali” che i “centri civici” tra le linee strategiche del Piano Strategico della Città Metropolitana di Roma Capitale in via di definizione.

Sia per le officine municipali che per i centri civici è stata quindi curata tutta la filiera: la parte di programmazione con le leggi regionali, la parte di pianificazione con le indicazioni del Piano Strategico Metropolitano della Città Metropolitana di Roma Capitale, e ora la parte di attuazione e sperimentazione con alcuni progetti in corso di sviluppo in alcune periferie romane, sostenuti dalla Fondazione Charlemagne e miranti allo studio di fattibilità dei “centri civici” per una loro successiva effettiva attivazione.

Ovviamente si tratta di esperienze che hanno i loro limiti. Si tratta di linee di lavoro che, da una parte, si concentrano sulla rigenerazione urbana, sulla riqualificazione degli ambienti di vita e sulle dimensioni dell’urbanità, ma che, dall’altra parte, vogliono proporre un potenziale modello alternativo di organizzazione della città. È questa una dimensione molto rilevante, soprattutto se rapportata alle condizioni della vita quotidiana degli abitanti, ma non è comunque l’unica. Bisogna avere sempre presente, come si diceva in introduzione, che i problemi che la pandemia ha evidenziato sono problemi strutturali, legati al modello di sviluppo e a quel livello bisogna poi concentrare l’azione e le politiche pubbliche.

Democrazia territoriale. Ri-politicizzare la vita urbana

Si è detto che oggi le esperienze di autorganizzazione sono i luoghi di produzione della politica, della cultura politica (Cellamare C., 2019, Città fai-da-te. Tra antagonismo e cittadinanza. Storie di autorganizzazione urbana, Donzelli, Roma). Rispetto all’assenza delle istituzioni e al vuoto della politica, queste esperienze costituiscono oggi i pochi, se non gli unici, spazi sostantivi della politica. Le esperienze di cittadinanza attiva e di autorganizzazione, almeno quelle più politicamente mature e che costruiscono spazi di dibattito pubblico nella direzione dell’interesse collettivo, ci raccontano spesso della presenza di una politica attiva. Sono anche i luoghi di una “politica significante”, cioè di una politica che si confronta con la vita quotidiana delle persone e con le esigenze effettivamente sentite dagli abitanti, ma anche di una politica fattuale, che si confronta con la praticabilità delle scelte e ne cerca la realizzazione, costituendo un legame forte con la dimensione dell’azione. In queste esperienze il legame tra politica e azione è molto forte, sembra dare plasticamente concretezza alla dimensione della vita activa, di cui ci parlava Hannah Arendt (1958). È qui che si realizza la dimensione collettiva dello “spazio pubblico”. In questo senso, le proposte di officine municipali e di centri civici, nate nell’ambito anche di una risposta alla pandemia, possono costituire un’importante opportunità. Aprono, inoltre, una strada importante: quella di “ripoliticizzare la vita urbana”. La democrazia contemporanea sembra progressivamente schiacciata sulla dimensione della governamentalità (Foucault M., 2004, Sécurité, Territoire, Population. Cours au Collège de France 1977-1978, Seuil/Gallimard, Paris), dove la politica si riduce ad amministrazione, dove il crescente riferirsi alla dimensione delle “politiche” sembra portare il campo del governo pubblico della città a una sfera prevalentemente tecnica, esautorando la dimensione invece prettamente “politica” e quindi la possibilità di discuterne in un dibattito pubblico. Il prevalere dell’economico sul politico, il crescente dominio delle forze economiche e di mercato sulla capacità di azione delle istituzioni pubbliche (che vedono così progressivamente erodere la loro sovranità), il prevalere di modelli culturali e sociali legati al neoliberismo, la perdita di valore e di riconoscimento nonché la criminalizzazione del conflitto, strumento principe del cambiamento e dell’esercizio della cittadinanza, sono tutti sintomi e fattori della naturalizzazione del modello culturale e di sviluppo neoliberista nonché della neutralizzazione della politica. Invece moltissime scelte urbane dipendono strettamente dall’idea e dal modello di città che vogliamo, e quindi strettamente da un confronto politico. Sono profondamente convinto della necessità di “ripoliticizzare la vita urbana”, di riaprire uno spazio di riflessione e di confronto sulle scelte quotidiane così come sulle grandi scelte di prospettiva per la città.

In questo senso gli spazi di una “democrazia territoriale” appaiono una prospettiva molto interessante, spazi politici reali connessi ai territori e prossimi alla possibilità di azione degli abitanti e degli altri soggetti sociali. Rosa Luxemburg riteneva che fossero tre le componenti della politica e della democrazia: quella istituzionale della democrazia rappresentativa, quella dei partiti, quella consiliare della democrazia diretta sui territori. Lungi da una dimensione idealistica o romantica o velleitaria, mi sembrano queste le direzioni interessanti in cui andare, e di cui le esperienze di autorganizzazione più politicamente orientate sembrano essere precorritrici.

 

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