
Le bandiere della Germania e dello UK - foto Shutterstock
Non era mai accaduto, dalla fine della Seconda guerra mondiale, che due nazioni europee sentissero l’urgenza di sottoscrivere un accordo così ampio e così reciprocamente vincolante in tema di difesa e di politica estera. L’hanno fatto Regno Unito e Germania, pochi giorni fa, al Victoria and Albert Museum di Londra, con la firma del Trattato di Kensington, nel quale i due paesi, oltre a rilanciare una più stretta cooperazione industriale e tecnologica, s’impegnano ad “assistersi reciprocamente, anche con l’impiego di mezzi militari, in caso di attacco armato” verso uno dei due contraenti. E da dove potrebbe arrivare la minaccia è esplicitamente indicato nel preambolo del Trattato, dove le parti concordano che “la brutale guerra di aggressione della Federazione Russa contro il continente europeo è la minaccia più significativa e diretta alla sua sicurezza”. Una “clausola di assistenza reciproca” che, nella pratica, andrebbe tuttavia a ricalcare quanto previsto dal patto di mutua difesa della Nato, che all’articolo 5 già stabilisce con chiarezza: «Le parti convengono che un attacco armato contro una o più di esse in Europa o nell’America settentrionale sarà considerato come un attacco diretto contro tutte le parti».
Ma perché mai Regno Unito e Germania, entrambi membri della Nato, hanno sentito la necessità di rinsaldare questo impegno di assistenza reciproca? L’assicurazione della Nato non basta più? Non c’è più da fidarsi troppo, com’è stato dal dopoguerra a oggi, sull’intervento (teorico) del più importante azionista dell’Alleanza Atlantica, vale a dire gli Stati Uniti, nella malaugurata ipotesi di un attacco ostile in territorio europeo? La risposta è complessa e può presentare differenti sfaccettature. La più importante delle quali è la “variabile Trump”. Un presidente che appena tornato alla Casa Bianca ha lanciato insulti verso i paesi europei suoi alleati storici (definendoli, in pieno accordo con il suo vice Vance, “parassiti”), che ha minacciato di ritirare, almeno in parte, il contingente militare americano dislocato in Europa (circa 100mila uomini), che ha preteso dai paesi membri della Nato un aumento fino al 5% del Pil per le spese militari (aumento accettato dalla maggioranza degli stati membri all’ultimo vertice della Nato, nei Paesi Bassi, alla fine di giugno) proprio per alleggerire il “peso” economico che finora era ricaduto principalmente sulle spalle di Washington. Come per l’invio di ulteriori missili Patriot all’Ucraina: noi li forniremo, ha detto in sostanza Trump, perché Kiev ne ha un disperato bisogno: ma a pagarli sarà l’Unione Europea. UE che, per voce della presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, sembra disposta a sostenere un piano straordinario da 800 milioni di euro per rafforzare le capacità di difesa degli stati membri.
Il ruolo centrale di Londra
Trump gioca la sua partita, ossessionato com’è dal debito pubblico statunitense, cresciuto all’iperbolica cifra di 41 trilioni di dollari. Tenta di tagliare dove può, come può, come ritiene opportuno: dalle spese militari al già fragile welfare statunitense (però diminuendo la tassazione ai più ricchi), fino a tentare di “attrarre” investimenti esteri minacciando dazi a destra e a sinistra (l’ultimo a cedere alle minacce è stato il Giappone, che ha accettato dazi “soltanto” al 15% sulle esportazioni, promettendo però in cambio investimenti negli Stati Uniti per 550 miliardi di dollari). Ma il tema, che ci riguarda molto da vicino, è anche il ruolo che l’Europa può svolgere da un punto di vista strategico e militare, a prescindere da quello degli Stati Uniti. E, nello specifico, il ruolo che punta a ritagliarsi il Regno Unito, che dopo aver assecondato la fallimentare via della Brexit sta tentando di riacquistare un ruolo centrale in questo scenario. Prova ne sia il recente accordo siglato con la Francia, la Northwood Declaration (dal nome della base militare inglese a nord-ovest di Londra, dov’è stato firmato dal premier britannico Starmer e dal presidente francese Macron), nel quale in sostanza i due paesi s’impegnano a “coordinare le loro forze nucleari, anche per rispondere a minacce estreme contro l’intera Europa”. «L’accordo è un avvertimento ai nostri avversari», ha riassunto Starmer. «Ora sanno che le nostre due nazioni reagirebbero insieme, in automatico, a un ipotetico attacco non convenzionale contro una di loro». Anche questo è un “patto” che non ha precedenti, ma che punta a definire in modo inequivocabile chi avrà voce in capitolo a livello militare, di fronte alla crescente minaccia rappresentata dalla Russia (e sullo sfondo dalla Cina) da un lato e dal disimpegno Usa nella Nato dall’altro (che però non ha impedito agli Stati Uniti di dispiegare bombe nucleari in territorio inglese, nella base militare Lakenheath della Royal Air Force: non accadeva dal 2008). Non l’Unione Europea nel suo insieme, dilaniata dai particolarismi e dalle ideologie di cortile, e perciò ingovernabile: ma la triade Regno-Unito-Francia-Germania, come nuovo pilastro, con Londra a fare da capofila, nelle dinamiche strategiche del vecchio continente.
Ma è davvero inevitabile tutto questo? Stiamo realmente scivolando verso una terza guerra mondiale? Si tratta di un pericolo effettivo o è l’effetto di una narrazione politica che punta a rendere plausibile questa ipotesi? Qui la risposta diventa più difficile, anche se i segnali oggettivi che arrivano non fanno ben sperare. A partire dalla postura autoritaria e prepotente che sempre più si sta imponendo come “linguaggio” preferito nelle relazioni internazionali, con leader che quasi si compiacciono per la violenza che sfoggiano (Putin, Netanyahu, lo stesso Trump) nel perseguire i loro obiettivi, senza curarsi delle leggi (un tempo) condivise e dei continui avvertimenti degli organismi internazionali che puntualmente cadono nel vuoto. L’uso della forza che prevale sulla ragione, sul potere della mediazione, sulla prevalenza del diritto umanitario e internazionale. Alla fine di giugno il governo britannico ha diffuso un documento programmatico che illustra le strategia di sicurezza nazionale per il 2025: «Il mondo è cambiato - si legge nel testo -. L’aggressione russa minaccia il nostro continente. La competizione strategica si sta intensificando. Le ideologie estremiste sono in aumento. La tecnologia sta trasformando la natura della guerra e della sicurezza interna. È un’epoca di incertezza radicale, e dobbiamo affrontarla con agilità, velocità e un chiaro senso dell’interesse nazionale». Secondo il governo britannico «…le minacce provenienti da altri paesi sono in aumento e il Regno Unito è stato direttamente minacciato da attività ostili tra cui assassinii, intimidazioni, spionaggio, sabotaggio, attacchi informatici e altre forme di interferenza democratica. I nostri avversari diffondono disinformazione e usano i social media per alimentare tensioni tra generazioni, generi e gruppi etnici. Le infrastrutture critiche, come i cavi sottomarini, continueranno ad essere un obiettivo».
La narrazione della paura
Ancor più esplicito il segretario generale della Nato, Mark Rutte: «Un attacco militare simultaneo da parte di Cina e Russia potrebbe far precipitare il mondo in un nuovo devastante conflitto globale», ha dichiarato pochi giorni fa l’ex primo ministro olandese, in un’analisi che appare però a dir poco superficiale. «Se Xi Jinping attaccasse Taiwan - ha sostenuto Rutte -, prima di tutto si assicurerebbe di fare una telefonata al suo partner Putin e dirgli: “Ehi, sto per fare questo, e ho bisogno che tu li tenga occupati in Europa attaccando un territorio della Nato”».
Certo, nessuno è in grado di escludere una simile ipotesi: ma basare le future strategie difensive dell’Occidente su un simile assunto sembra una mossa piuttosto fragile, per non dire avventata. Eppure questa narrazione sembra aver fatto ormai presa nella pubblica opinione: il sondaggio Global Foresight 2025, condotto alla fine dello scorso anno dal centro studi americano Atlantic Council, aveva già rilevato che il 40% degli intervistati ritiene possibile, se non probabile, una guerra tra grandi potenze nei prossimi dieci anni, con l’Occidente da un lato e dall’altro il Crink (acronimo di Cina, Russia, Iran e North Corea), identificato come il “nuovo asse del male”. Con buona pace del “mai più” proclamato alla fine dell’ultima guerra mondiale, ottant’anni fa.
Anche da Mosca i segnali che arrivano sono allarmanti, anche se la narrazione è capovolta: «L’Occidente, compresa la Gran Bretagna e i paesi europei, potrebbe provocare una guerra nucleare su larga scala entro la fine di questo decennio», ha scritto Komsomolskaya Pravda. Eppure le guerre si fanno se qualcuno decide di farle, a prescindere dalle conseguenze, come Putin insegna. Ma se tutti invocano la guerra, quale peso può avere chi si ostina a cercare una via d’uscita pacifica a questa colossale crisi internazionale dove le regole, e la ragione, sembrano non avere più alcun valore? Quale credibilità può avere chi invoca “sicurezza” senza avere nemmeno la forza di intervenire per porre fine alle atrocità già in atto? Come scriveva pochi giorni fa l’ex ambasciatrice Elena Basile: «I popoli ciechi e sordi applaudono mentre i loro governi li conducono, lentamente ma con fermezza, verso l’abisso». Confermando, di fatto, quel che Keith Kellogg, inviato speciale del governo americano per Russia e Ucraina, ripete da mesi: «Che ci piaccia o no, siamo molto vicini alla Terza guerra mondiale».