SOCIETÀ

Come sta il mercato dei gas serra? (E come funziona)

Quando a fine maggio il prezzo da pagare per mandare in atmosfera una tonnellata di anidride carbonica si è assestato sopra i 20 euro per la prima volta dall’inizio della pandemia, Beatriz Yordi - che dirige i mercati del carbonio per la Commissione Europea - ha parlato di un “test di resilienza” superato. Detto più semplicemente, scampato pericolo. 

Il mercato delle emissioni (European Union Emission Trading Scheme, EU-ETS) – lanciato nel 2005 dall’Unione Europea per arruolare i meccanismi di mercato nella lotta al riscaldamento globale – poteva essere una vittima illustre del Covid-19. La pandemia ha avuto l’effetto di un tornado su diversi mercati, dal petrolio ai mercati azionari, per lo più deprimendo i prezzi. I prezzi bassi sono un problema per qualunque mercato, ma quello delle autorizzazioni ad emettere gas serra è un po’particolare. Un prezzo troppo basso fa svanire la sua stessa ragion d’essere, cioè rendere costose le emissioni e incentivare gli investimenti in tecnologie green. 

“Invece è andata abbastanza bene” conferma Massimo Tavoni, professore di Economia dei cambiamenti climatici al Politecnico di Milano e direttore dello European Institute of Economics and the Environment. “All’inizio della pandemia il prezzo era intorno ai 25 euro (per ogni allowance, cioè autorizzazione a emettere una tonnellata di CO2, ndr), poi è sceso intorno ai 15 e ora si è stabilizzato attorno ai 20. Rispetto ad altri mercati la volatilità è stata contenuta, soprattutto se si fa il paragone con la crisi del 2009, quando il prezzo calò di fatto a zero e rimase lì per molti anni. Ha funzionato il meccanismo di stabilità introdotto lo scorso anno dalla Commissione Europea (ne parleremo più sotto, ndr), ma soprattutto la convinzione generale che l’Unione voglia andare avanti con riduzioni importanti delle emissioni ha rassicurato il mercato”. 

Si capisce quindi il sollievo di Yordi, e lo si capisce ancora di più se ci si ricorda che la Commissione Europea sta per inaugurare una quarta e nuova fase del meccanismo di scambio delle emissioni, che inizierà nel 2021 e proseguirà fino al 2030. Dopo due fasi iniziali decisamente turbolente e la terza dedicata al consolidamento, è nel prossimo decennio che lo strumento dovrà finalmente dimostrare un impatto misurabile contro il cambiamento climatico. Iniziarlo con un mercato a pezzi non sarebbe stata una buona premessa.

Un po’ di storia 

Lo European Emission Trading Scheme non è stato il primo mercato delle emissioni, ma è di gran lunga il più grande e, con molte luci e ombre, quello di maggior successo, se non altro per l’area geografica, il valore economico e la percentuale di emissioni mondiale che comprende. 

Il primo esperimento di sistema “cap-and-trade” per limitare le emissioni inquinanti nacque negli Stati Uniti, a seguito del Clean Air Act del 1990. Quella legge, che avrebbe avuto un notevole successo nel limitare in particolare le emissioni di ossido di zolfo e azoto (le cause delle allora famose “piogge acide”), conteneva diverse idee innovative, tra cui quella di fissare un tetto massimo alle emissioni annuali di quei gas (“cap”), distribuire ai principali operatori economici autorizzazioni nei limiti di quel tetto, e permettere il commercio (“trade”) di quelle quote. Chi ammodernava i propri impianti in modo da ridurre le emissioni nocive dalle ciminiere si ritrovava con quote in eccesso che poteva vendere sul mercato. In questo modo, investire in tecnologie verdi diventava conveniente. 

Negli anni Novanta, anche l’Unione Europea iniziò a considerare l’idea di un sistema cap and trade, stavolta per le emissioni di CO2 e altri gas serra. Dopo un lungo negoziato, il sistema EU-ETS venne istituito da una direttiva del 2003 e inaugurato nel 2005, per una prima fase pilota che durò fino alla fine del 2007. Non tutti erano convinti, anzi. C’era, nell’Unione, chi preferiva altri strumenti, come una vera e propria carbon tax che imponesse direttamente costi sulle emissioni. “La principale ragione politica per cui per abbiamo un mercato delle emissioni è che la tassazione diretta richiederebbe l’unanimità dei paesi membri, mentre l’istituzione del mercato si poteva fare a maggioranza” chiarisce Tavoni. 

Come funziona

Lo EU-ETS ha avuto diversi aggiustamenti dalla sua istituzione nel 2005, ma il meccanismo fondamentale rimane sempre lo stesso. 

La Commissione Europea fissa, all’inizio di ogni ciclo (la fase 3, iniziata nel 2013, si conclude alla fine di quest’anno) il tetto alle emissioni di gas serra consentite agli stabilimenti produttivi (fabbriche e centrali energetiche, essenzialmente) di ciascun paese. Il tetto per ogni anno è inferiore a quello precedente, ed è deciso in base agli obiettivi collettivi di riduzione delle emissioni dell’Unione Europea. Il tetto per il 2013 era di 2.084.301.856 di tonnellate di anidride carbonica, e andava a scendere di circa 38 milioni di tonnellate ogni anno fino al 2020.

Questo tetto viene poi suddiviso in ”allowances”, ovvero autorizzazioni ad emettere una tonnellata di CO2. Nel conto sono comprese diversi tipi di emissioni, in particolare anidride carbonica, ossidi di azoto, PFC (perfluorocarburi). 

Ogni paese membro ne riceve una certa quantità, e li ridistribuisce agli operatori industriali sul proprio territorio. Una parte delle allowances sono concesse gratuitamente: in particolare buona parte di quelle per il settore manifatturiero e praticamente tutte quelle al settore del trasporto aereo. Le altre vengono messe all’asta, lasciando che siano gli stessi acquirenti a decidere il prezzo. E generando un gettito (3 miliardi di euro, nell’asta del 2013) in gran parte utilizzato per finanziare interventi e ricerca su energie rinnovabili ed efficienza energetica. 

A questo punto, come in un gioco da tavola in cui tutti i concorrenti hanno la loro dotazione di fiches iniziale, si inizia a giocare. Alla fine di ogni anno, ogni produttore deve restituire una allowance per ogni tonnellata di CO2 che ha effettivamente emesso. Se ha emesso meno di quanto era autorizzata a fare, può tenersi nel cassetto le autorizzazioni per gli anni a seguire, o scambiarle sul mercato con chi invece ha bisogno di emettere più CO2 di quanto altrimenti potrebbe (le penali per chi ha emesso CO2 in eccesso e non ha allowances per coprirle sono salatissime, quindi conviene sempre comprare autorizzazioni sul mercato). L’incontro di domanda e offerta determina il prezzo delle allowances

Partecipano al gioco i settori della produzione industriale e della produzione energetica, mentre restano fuori il trasporto e l’edilizia privata. Il settore aeronautico ha un suo mercato separato, in parte comunicante con quello principale (le compagnie aeree possono comprare autorizzazioni dalle fabbriche, ma finora queste ultime non potevano fare l’opposto). Come per le principali commodities, c’è un mercato spot (dove lo scambio denaro/autorizzazione è immediato) e uno future, dove si fanno contratti con cui ci si impegna a comprare o vendere allowances a un certo prezzo più avanti nel tempo, scommettendo sul loro andamento. 

L’idea è che se il prezzo di una allowance è “quello giusto”, aziende o utility del settore energetico saranno incentivate a ridurre le proprie emissioni, perché si ritroveranno con autorizzazioni in eccesso che potranno vendere, ripagando gli investimenti in tecnologia e aggiungendovi un profitto. Chi invece non fa nulla per ridurre le emissioni si accorgerà presto di pagarle a caro prezzo (per esempio, non potrà aumentare i propri livelli di produzione e il proprio fatturato senza dover comprare sul mercato autorizzazioni a emettere più CO2). 

Ovviamente, il meccanismo presuppone che le emissioni documentate sulla carta corrispondano a quelle effettive. Tutti i partecipanti al mercato devono mettere in piedi un sistema di monitoraggio delle proprie emissioni e farselo approvare, comunicare annualmente il loro bilancio delle emissioni e farlo controllare da un revisore esterno accreditato. 

Come è andata finora? 

Le prima due fasi dell’ETS (2005-2012) sono state caratterizzate da una enorme volatilità dei prezzi. Dopo l’esordio nel gennaio del 2005 un po’ sotto i 10 euro per tonnellata, il prezzo è schizzato a 30 euro sei mesi dopo, risceso quasi subito a 20, ancora 30 all’inizio del 2006, tornato al punto di partenza a meno di 8 euro a metà dello stesso anno, ancora su per un po’, poi praticamente a zero tra il 2007 e il 2008.  

Una volatilità in parte dovuta a eventi esterni, e in parte a errori di costruzione e gestione del mercato stesso. Nella prima fase, in particolare, le allowances assegnate erano semplicemente troppe: le pressioni politiche degli Stati Membri per non imporre un “cap” troppo severo sulle attività produttive avevano avuto la meglio. In più, quelle autorizzazioni iniziali in eccesso non potevano nemmeno essere messe in banca e tenute da parte, perché si era deciso di ripartire da zero, con una nuova asta per la fase 2 nel 2008. Risultato: scarsissimi incentivi ad acquistare i crediti. “Anche la presenza contemporanea di altri strumenti, come gli incentivi alle energie rinnovabili, ha perturbato il mercato, perché rendeva superfluo per alcuni ricorrere alle allowances col risultato di deprimere il prezzo” ricorda Tavoni. 

Sia la volatilità che i prezzi mediamente bassi sono un problema. Un prezzo impazzito che cambia in continuazione spinge gli operatori a rimandare le decisioni di investimento: perché rinnovare oggi il mio impianto e accumulare crediti di emissioni da rivendere, se c’è la possibilità che tra un anno o due il prezzo delle allowances raddoppi, e con esso il valore di quell’investimento? Il prezzo troppo basso è invece di per sé un problema, perché azzera gli incentivi economici alle politiche green. 

“La seconda fase, quella dal 2008 al 2012, era partita bene, con prezzi più o meno uguali a quelli di adesso, che erano quelli su cui ci si voleva attestare” ricorda Tavoni. Ma prestò arrivò la grande crisi finanziaria e la crisi dei debiti sovrani, affrontata con le politiche di austerità che remavano contro gli investimenti in nuove tecnologie. Il prezzo delle allowances è sceso ancora, galleggiando per lo più sotto i 10 euro a tonnellata fino alla metà del 2017, quando ha iniziato una lenta salita interrotta solo dall’arrivo del coronavirus quest’anno – e che ora, apparentemente, può riprendere. Decisiva, per stabilire i prezzi e far funzionare il mercato, è stata l’istituzione della Market Stability Reserve, introdotta nel 2019 e che sarà un pilastro della prossima fase. In pratica una certa quota di allowances, decisa annualmente dalla Commissione, viene inserita in una riserva strategica anziché essere messa sul mercato, e rilasciata col contagocce negli anni successivi in base all’andamento dei prezzi. Mutatis muntandis, è un po’ quello che fa una banca centrale per tenere sotto controllo l’inflazione, variando il costo del denaro e di fatto immettendo o togliendo moneta dal mercato finanziario. Lo strumento sarà ulteriormente rafforzato nella prossima fase, che coprirà il periodo dal 2021 al 2030 con l’obiettivo è di arrivare al 2030 con il 43 per cento di emissioni in meno rispetto al 2005. 

Ma serve? 

È la domanda delle domande: lo EU-ETS ha fatto il suo lavoro, cioè contribuire alla riduzione delle emissioni nei paesi dell’Unione Europea? È una domanda a cui è molto difficile rispondere con uno studio scientifico, perché alla riduzione delle emissioni contribuiscono molti fattori, e manca il gruppo di controllo: una immaginaria Europa degli ultimi 15 anni con tutte le stesse condizioni ma senza quel mercato. Una riduzione delle emissioni di CO2 in Europa in questo periodo c’è stata eccome, e si sa. Ma quanto è dovuta al mercato ETS, piuttosto che ad altre misure come gli incentivi alle rinnovabili o, più semplicemente, alla recessione seguita alla crisi del 2008? 

Proprio quest’anno, uno studio su PNAS firmato da Patrick Bayera e Michael Aklin, rispettivamente delle Università di Strathclyde (UK) e Pittsburgh, ha provato a costruire quella Europa immaginaria: i due ricercatori hanno elaborato con metodi statistici i dati sull’andamento delle emissioni in Europa in vari settori prima dell’introduzione dello EU-ETS, quelli sulle emissioni nei settori non coperti dal mercato dei permessi, e quelli più generali sulla correlazione tra prodotto interno lordo di un paese e andamento delle emissioni. Combinando il tutto, hanno costruito un modello probabilistico di come sarebbero andate le emissioni di CO2 in Europa a parità di tutte le altre condizioni ma in assenza di mercato ETS, concludendo che gli scambi di allowances hanno consentito una riduzione delle emissioni del 3,8 per cento a livello europeo, con punte del 20 o 30 per cento per i paesi nordici, Danimarca in testa (e invece un paradossale effetto negativo in Paesi Bassi, Lettonia, Grecia, Germania). 

“Sono numeri plausibili, più o meno tutti gli studi fatti parlano di un contributo di qualche punto percentuale a livello europeo. Altri studi che hanno guardato all’impatto sull’innovazione, per esempio sul numero di brevetti per tecnologie verdi” spiega Tavoni. “In entrambi i casi si vede un impatto modesto, ma con prezzi delle emissioni così bassi non ci si poteva aspettare di più. Nel complesso, in questi anni, il prezzo medio è stato sotto i 10 euro a tonnellata, ed è troppo basso per avere un impatto”.  

Questa è l’Europa. E gli altri? 

Come abbiamo visto, i pionieri dei mercati delle emissioni sono stati gli Stati Uniti. l’Europa è arrivata dopo, e all’inizio nemmeno troppo convinta. Ma oggi, l’EU-ETS è di gran lunga l’esempio più avanzato e consolidato di mercato delle emissioni, e copre circa il 4 per cento delle emissioni globali di gas serra. 

Fuori dall’Europa, alcuni stati americani hanno i loro mercati, in particolare la California e un gruppo di stati del nord est riuniti nel RGGI (ma non c’è nessuno schema federale). Il Quebec ha il suo mercato “cap and trade”, così come la Corea del Sud. Progetti pilota, paragonabili a quello che l’Europa fece tra il 2005 e il 2008, sono in corso in Messico e nella regione del Guangdong in Cina. Altri paesi hanno scelto invece di puntare su strumenti diversi, in particolare le vere e proprie carbon tax, che penalizzano economicamente le emissioni. 

 

Per la maggior parte tutti seguono lo schema di funzionamento del mercato europeo, ma con alcune importanti differenze. Il sistema californiano e quello del Quebec, per esempio, hanno un price floor, un prezzo minimo sotto il quale gli scambi non possono scendere, attorno ai 10 dollari per tonnellata. È una proposta di cui si discute da tempo anche per l’ETS europeo. 

Diversi anche i sistemi di sanzione per chi sgarra e non restituisce tutti i certificati per le emissioni dichiarate. In Europa sono 100 euro per ogni tonnellata di CO2 che manca all’appello. In USA e Canada, invece, vanno restituite il triplo o il quadruplo delle allowances mancanti, il che ai prezzi correnti si traduce in una sanzione ben più bassa. Nel 2016, uno studio pubblicato su Frontiers of Energy Research calcolava che una fabbrica che emettesse 50 tonnellate di CO2 non autorizzate avrebbe dovuto pagare 5274 euro in Europa, 2164 euro in California e appena 693 Euro negli Stati Uniti nord-orientali. 

La Gran Bretagna sta lavorando per costruire il proprio mercato delle emissioni post-Brexit, separato da quello europeo ma intercomunicante. Da quello che trapela, l’ETS britannico dovrebbe puntare allo stesso obiettivo di zero emissioni nette di CO2 entro il 2050. Ma a differenza del mercato comunitario, lo schema inglese dovrebbe prevedere un prezzo minimo di 15 sterline a tonnellata, e dei meccanismi di stabilità per evitare impennate dei prezzi ed eccessive volatilità. 

La Cina annuncia l’intenzione di lanciare un ETS nazionale (che diventerebbe la prima borsa del carbonio al mondo) da anni, ma ha più volte rimandato l’appuntamento, in origine fissato per il 2017. Al momento esistono otto progetti pilota regionali, tra cui Pechino e Guangdong, che dal 2014 in poi hanno ospitato scambi per 117 milioni di dollari (il mercato europeo valeva 16 miliardi di dollari nel solo 2019).   

Un mercato mondiale del carbonio?

È quello che vorrebbero alcuni: integrare via via i mercati locali e nazionali delle emissioni in una grande borsa internazionale del carbonio, anche per evitare che chi opera sul mercato, per esempio, europeo abbia a disposizione la scappatoia della delocalizzazione: sposto una parte della produzione in un paese non coperto dagli ETS, e posso emettere CO2 senza i costi che pagano i concorrenti europei. Al momento, messi tutti assieme, i sistemi ETS coprono ancora una piccola parte delle emissioni mondiali. Per essere davvero efficace, lo strumento va espanso, ma in un’economia globalizzata avere tanti mercati delle emissioni separati è un problema. 

“E una quesitone delicata” premette Tavoni. “Sì, all’interno dell’accordo di Parigi c’è una spinta a integrare i mercati internazionali per una questione di efficienza. Su questo però pesa l’esperienza bruciante dei permessi CDM del protocollo di Kyoto, che fu disastrosa dal punto di vista della verificabilità”. Il Clean Development Mechanism istituito dal protocollo di Kyoto era uno schema di scambio di crediti sulle emissioni tra paesi. In particolare, consentiva ai paesi industrializzati di acquisire crediti per emettere CO2 in cambio di investimenti in sostenibilità in paesi in via di sviluppo. Schiacciato da molti problemi e inefficienze, in particolare dalla difficoltà di monitorare gli effettivi risultati degli investimenti, il mercato del CDM crollò nel 2012, diventando di fatto irrilevante. “E poi non vogliamo inondare di altri permessi il mercato europeo, che finalmente funziona, rischiando di far crollare i prezzi. Un collegamento tra diversi mercati ci sarà, ma limitato”. L’Unione Europea, spiega Tavoni, pensa a un carbon tax adjustment, in pratica un dazio all’entrata su beni e servizi da altri paesi per pareggiare il terreno e far costare anche le emissioni prodotte fuori dall’Europa. “Ma è una strada in salita con il WTO, ed è tecnicamente complicato. 

Ci vorrebbe un inventario sul ciclo di vita di tutti i prodotti che entrano nell’Unione Europea. È più facile calcolare un’intensità media di CO2 per ogni paese e stabilire una tassa in base a quella”.

Il futuro 

Secondo Tavoni, nonostante le molte difficoltà e perplessità che tuttora lo accompagnano, il mercato delle emissioni europeo ha retto gli shock (pandemia compresa) e il suo futuro non è più in discussione. “Non è uno strumento perfetto, e non può essere l’unico. Ma è quello che abbiamo e con cui dobbiamo lavorare. Può essere rivisto, rafforzando ulteriormente il meccanismo di stabilità o introducendo un floor price, un prezzo minimo. Sono cose su cui sicuramente l’Europa continuerà a negoziare”. A un certo punto andrebbe anche esteso ai settori attualmente non coperti. “Il settore elettrico, che rappresenta una buona parte del mercato delle emissioni, si sta decarbonizzando abbastanza rapidamente” ricorda Tavoni. “Sono soprattutto i settori non regolamentati dall’ETS, come il trasporto e il settore residenziale, che non stanno riducendo le emissioni”.

E se la tenuta del prezzo delle emissioni in questi mesi è stata rassicurante, gli esperti sperano ancora di vederlo salire nei prossimi anni. “Il prezzo ideale, quello necessario per arrivare a zero emissioni nette a metà secolo, sarebbe intorno ai 50 euro a tonnellata” sintetizza Tavoni. “Quello è il prezzo ‘giusto’, i 25 Euro che vediamo oggi sono l’effetto delle incertezze politiche e della competizione di altri strumenti, da tasse a incentivi diretti. Ma se l’economia europea si riprenderà rapidamente, e se i governi dell’Unione si mostreranno convincenti sugli obiettivi di riduzione delle emissioni, arrivare a quel prezzo è possibile”. 

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