CULTURA

Sullo scaffale: Il male che non c’è di Giulia Caminito

Immaginiamo una giovane scrittrice che abita il mondo dell'editoria da anni come infaticabile editor e divulgatrice della letteratura delle donne e, dopo un esordio di pregio ma senza troppo clamore cui segue un secondo buon romanzo, finalmente raggiunge il meritato successo. L’acqua del lago non è mai dolce vende 150.000 copie e vince il Premio Campiello nel 2021. È un romanzo che piace sostanzialmente a tutti perché non è difficile identificarsi nella protagonista, visionaria ragazza alle prese con i tormenti che l’esistenza ci mette davanti quando siamo giovani e dobbiamo per forza crescere.

La scrittrice in questione è Giulia Caminito ed è tornata in libreria da pochissimo, dopo tre anni di silenzio, con un romanzo nuovo, ambizioso, che germina dal precedente ma ne è, infine, sideralmente lontano. A partire dal titolo, che se nel romanzo vincitore del Campiello era sfumato e metaforico più che letterale, qui non lascia scampo: chi legge sa cosa ci troverà.

Il male che non c’è (che in copertina ha l’avverbio scritto in corsivo minuscolo, rispetto al maiuscolo di tutte le altre lettere), pubblicato per Bompiani, è il racconto del male di vivere di montaliana memoria portato però a quell’esasperazione che non è più, solo, l’angoscia esistenziale che avevano conosciuto anche i precedenti personaggi di Caminito ma quel senso di perdita di lucidità che attanaglia la mente e il corpo di chi soffre di un disturbo psicologico.

Loris è un ragazzo irrisolto, fragile, convinto di avere una qualche malattia corporea che però i medici non riescono a identificare e lui spende anche i soldi che non ha per riuscire a farsi fare una diagnosi. I genitori non lo capiscono: vorrebbero da lui la performance, specie il padre, mentre la madre è fin troppo accogliente. La sua ragazza, invece, gli è antitetica: sicura di sé, reagisce alle difficoltà affondando il colpo, cercando la soluzione, dandosi da fare senza tregua, e l’immobilismo di Loris le è alieno. Più lei sboccia più lui diventa inattivo e cerca rifugio in quello che sa fare meglio, cioè leggere, così, per pochi momenti quando compita l’etichetta di un qualsiasi prodotto commerciale, o per ore se si immerge tra le pagine di un libro, trova rifugio e pace. Ma agli occhi del mondo Loris è un disadattato. Non chatta, non va in palestra, non tira a lucido il corpo, non riesce nemmeno a tenersi stretto il lavoro, che peraltro orbita in quel mondo impossibile che è l’editoria, dove, senza dirlo troppo ad alta voce, vale però la vulgata che una paga dignitosa non è neppure necessario prevederla per chi è alle prime (seconde e terze) armi. Tanto c’è turnover di stagisti a sufficienza. E, in ogni caso, Loris è troppo lontano da quell’equilibrio interiore che gli potrebbe permettere, forse, di sfangarla anche in un sistema dalle maglie così strette e così performativo.

Però Loris la voglia di vivere la conserva. Specialmente quando ricorda il nonno Tempesta (l’azione è su due piani e il passato è sostanzialmente coincidente con la vita rurale fatta col nonno e la voliera costruita in giardino) oltre a quando si lascia sedurre dalle sirene di Ulisse. Per lui si chiamano Catastrofe e gli sussurrano alle orecchie parole suadenti. Sorride Catastrofe, ogni volta con volto diverso, capace di comparire quando meno Loris se lo aspetta e di intrattenerlo anche quando ha perso le speranze.

“È bellissima, ha un velo da sposa in testa, un mazzo di gelsomini nelle mani, l’anello di sua madre al dito, dietro al velo Loris non riesce a scorgerle il viso, ma non gli importa, sa che sorride, radiosa e piena di luce, lei si muove per la stanza e si sdoppia, si triplica, riempie lo spazio con copie di sé stessa”.

Come resistere?

Viene di pensare, leggendo, che non serve essere ipocondriaci per avere le Catastrofi che sibilano nella mente: spesso siamo noi stessi con le nostre proiezioni mentali a renderci la vita impossibile. “Non c’è nessuno di voi che possa farmi peggio di ciò che mi procuro da solo” pensa Loris mentre viene licenziato. “Io ho tutto il terrore che serve” aggiunge.

Vale per molti di noi, ma non lo confessiamo. Nella società liquida della luce, dove tutto è “like” e “cuori” e storie che durano 24 ore e poi gli eventi non esistono più e non sono mai esistiti, le ombre non sono permesse. Ecco perché Loris è solo a maggior ragione. Poi però scopre Maddie, che racconta via Instagram la sua malattia. Esame dopo esame, paura dopo paura. Forse allora non è poi così solo, ma ha trovato quantomeno uno specchio. Peccato che, come in tutti gli specchi, ciò che ci vediamo dentro non sia altro che un riflesso.

Caminito in questo romanzo mette tutta se stessa e decide con profonda ambizione di affrontare un tema difficile, a tratti sgradevole, anche perché lo fa temperando la matita e premendo forte, scandagliando il corpo e la mente senza mai tirare il freno. Questo è ciò che fa una scrittrice. Dare ascolto a un’urgenza, sua e di tutti, e Caminito non ha paura di affrontare il compito: di vittorie ne ha già alle spalle, ora può permettersi di sperimentare al massimo.

La abbiamo intervistata.

Il “male che non c’è” è una persecuzione che nel tuo libro assume le mutevoli forme di una creatura fantastica, Catastrofe, la quale sussurra alla mente del protagonista la sua ossessione. Come hai voluto trasfigurare in letteratura il dolore che mente e corpo non distinguono più?

Dando a Catastrofe sostanza e presenza volevo sottolinearne l’intrusività, la costanza e l’ossessività. Mentre Loris cerca di portare avanti le sue attività quotidiane, Catastrofe appare e si mostra spesso interrompendo il suo agire e il suo pensare. Perché credo che tutte le forme di nevrosi intervengano subdolamente mentre noi proviamo a vivere la nostra vita. Catastrofe è portatrice di dolore, un dolore fisico che però parte dalla mente, è dovuto alla somatizzazione. Nel corpo quindi si scaricano, in sintomo doloroso, le ansie fuori controllo di Loris, che non è più in grado di capire ciò che prova e sente.

Il protagonista ha una compulsione. Legge. Legge di tutto, legge per fuggire, legge per non sentire, legge per estraniarsi. È una fortuna o una maledizione? 

Può essere a volte una grande fortuna perché Loris è sempre in contatto con un altrove che lo costringe a distogliere l’attenzione da una realtà che non lo soddisfa e in più gli permette di restare in contatto con le diverse umanità che hanno abitato il mondo; dall’altra è una maledizione quando diventa troppo compulsiva e lo frena dal riemergere alla vita per le cose più banali e più sane come dormire, mangiare ecc.

Viviamo in un mondo fondato sull’apparenza, dominato da strumenti che hanno la caratteristica dell’orizzontalità e mai quella della verticalità. Tutto dura il tempo di un clic e non ha nessuna importanza il grado di realtà di quello che ci viene messo sotto gli occhi. Nel romanzo c’è la storia di Maddie che trasforma in evento mediatico la sua malattia, come se bastasse dire che si è malati per esserlo davvero. Quantomeno agli occhi degli altri. Dire di essere felici per esserlo davvero. Questo fenomeno potrebbe solo all’apparenza essere paragonato al processo di invenzione legato all’arte del romanziere, la finzione. Cos’è successo? Perché scambiamo l’invenzione volendola credere realtà e non cerchiamo più la finzione nell’opera d’arte?

Credo che i social, i quali hanno trasformato i nostri nomi e cognomi in dei profili consultabili, implichino sempre la menzogna, la creazione di un alter ego da noi generato, un’immagine che noi vogliamo dare di noi stessi, e ci culliamo in questa bugia insieme alle bugie degli altri, perché scorrono così rapidamente da non poter essere smascherate, sono solo fotografie, mezze frasi, video di dieci minuti che ci illudono di un contatto che in realtà non avviene. Così accade per Loris con Maddie, pensa di essere spettatore della sua vita e in verità è solo lì a guardarla inventarsi una esistenza che non ha. È un fenomeno molto diffuso anche su YouTube, dove vengono scoperte delle frodi identitarie all’ordine del giorno, durate anche anni e anni.

Il corpo. Vituperato, amato, levigato, pompato. Ne siamo schiavi, non possiamo vivere senza. Se smette di funzionare siamo rovinati. Quali parole hai cercato per dargli voce? 

Ho cercato un vocabolario nuovo fatto di parole precise che potessero come bisturi isolarne delle parti, dare voci a tendini e ossicini che fanno parte di noi ma che risultano anche a noi estranei e inconoscibili. Ho studiato un po’ d’anatomia, ho riguardato tante cartelle mediche, ho cercato di ragionare sul corpo di un giovane uomo, sulle sue paure, sugli aggettivi con cui si sarebbe potuto descrivere.

La medicina è sempre in grado di salvarci?

No, purtroppo non credo. Perché noi siamo la grande e a volte insondabile variante. Ogni corpo è per se stesso unico e misterioso.


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