Riccardo Falcinelli torna in libreria con una nuova opera-mondo: Visus (Einaudi). Dopo i colori e le forme, ecco che lo spunto attorno a cui stavolta colleziona pensieri, teorie, conoscenze sono i volti. Nell’epoca del selfie, il più famoso graphic designer d’Italia ricomincia dalle basi e ci insegna, una volta in più, a “guardare”.
A cosa serve la raffigurazione del volto?
Potremmo rispondere: a rappresentare qualcuno. Il racconto di Falcinelli si apre infatti con un aneddoto della sua storia familiare. Di quella volta in cui sua madre volle usare sul passaporto la foto della sorella gemella anziché la sua e non venne fermata ai controlli in aeroporto, nonostante il figlio ci confessi che, quanto a lui, era invero assolutamente capace di distinguere, anche in foto, la madre dalla zia nonostante fossero praticamente due gocce d’acqua.
Ci impiega 513 pagine (ma ne avremmo lette tranquillamente anche il doppio) per dimostrarne la ragione e intanto ci fa viaggiare dall’antico Egitto alla Grecia antica, alla Roma di Augusto, dalla Rivoluzione francese a quella industriale, ai giorni nostri, ci fa guardare dipinti rinascimentali, barocchi, romantici, fototessere, schemi, fumetti, pubblicità, kawaii, fermoimmagini di film, vasi, riviste, teste di cera, cartoni animati, produzioni dell’AI, caricature, monete, copertine di libri. La cifra di Falcinelli è la sua capacità di ricomporre mondi dotandoli di senso. Di leggere il presente partendo dal passato e viceversa, di declinare l’accidentale analizzando il voluto, di rintracciare l’universale laddove ci sembra che agisca la moda.
La riproduzione del volto è per noi quasi sempre, di primo acchito, un ritratto. Che sia un selfie, un dipinto, la testa marmorea di un imperatore, una fototessera o uno schizzo, immaginiamo (applicando una categoria contemporanea, quella della “rassomiglianza”) che abbia la funzione di identificare quella specifica persona. “Abbiamo delegato alla fotografia una grande responsabilità” scrive Falcinelli “quella di dire come stanno le cose e finiamo col credere che questo sia l’unico modo per rappresentare gli individui: attraverso le apparenze ottiche”. Eppure, lo sappiamo tutti, ci sono foto che ci somigliano di più e foto che ci somigliano di meno, riproduzioni in cui “veniamo bene” e in cui non ci piacciamo o addirittura non ci riconosciamo, Falcinelli ci mostra due dipinti della moglie di Rubens, uno fatto dal marito e uno dall’allievo Van Dyck, in cui ci sembra di guardare due donne diverse (e infatti in un caso ritraggono l’amata, nell’altro la moglie del capo: il soggetto non è propriamente lo stesso), ci fa osservare che il bambino della pubblicità dell’ovetto Kinder è uno “pseudo-ritratto” ossia la faccia di una persona reale che vuole “raccontare valori quotidiani che riguardano tutti” e il cui scopo non è quello di rappresentare una persona specifica. Non è un ritratto, apprendiamo con gran stupore, neppure il volto celeberrimo de La ragazza con l’orecchino di perla di Vermeer, venduto all’asta nel 1696 come tronia, cioè “un tipo di quadro che mostra la testa di figure allegoriche, simboliche o curiose”. “Se scambiamo la ragazza di Vermeer per un ritratto” scrive Falcinelli “rischiamo di proiettarvi una psicologia che non c’era, non capendoci niente”. Invece Gertrude Stein si riconosce pienamente nel ritratto che le ha fatto Picasso con i piani del viso completamente scomposti e geometrizzati. “Per me sono io” ha affermato.
Di contro quando guardiamo le fotografie delle nostre nonne ci viene da dire: “Sembra un’attrice”. “Lo diciamo perché hanno la pelle levigatissima, i fondi sfumati, e sono in posa, in bianco e nero, come in un vecchio film di Hollywood. Ai nostri occhi questo insieme di effetti evoca la categoria “attrice” […] chi avesse visto la scultura di Amenofi avrebbe esclamato: “Ecco il sovrano”, senza per forza riconoscerlo dalla fisionomia”, anche perché allora non esistevano certo i tabloid e nessuno avrebbe potuto riconoscere il sovrano perché sapeva com’era fatto. Anche il volto di Cristo non era noto: per consegnarlo ai suoi assassini Giuda lo ha identificato come colui che avrebbe baciato. Bisogna aspettare il 1860 (e la disponibilità del mezzo fotografico) perché la regina Vittoria d’Inghilterra e il principe Alberto decidano di vendere i propri ritratti (in sei anni vengono acquistate 400.000 foto) e i loro volti diventino familiari alle masse. “Se in molti si chiedono perché si parli tanto di Lady Diana o del principe Harry o perché si impazzisca per la serie The Crown, la risposta è facile: hanno iniziato loro per primi”. (A onor del vero nel 1860, ci racconta Falcinelli, vengono venduti anche seimila ritratti di Garibaldi in meno di due settimane non appena, il 7 settembre, sbarca a Napoli).
Ma non si deve immaginare che il ritratto tipologico, come la scultura di un sovrano, sia solo frutto di grammatica, cioè di una “regola”, termine che Falcinelli ci racconta di aver sentito usare dal suo barbiere quando, poco più che ventenne, decise di farsi crescere la barba e quello gli insegnò che la regola, appunto, era di tenerla a due centimetri dal pomo d’adamo.
Visus ci racconta per bene quali siano state le regole ma anche come in queste si sia inserita l’eccezione, non tanto casuale, ma pregna di significato che ha, a volte, aperto la strada a regole nuove.
Gran parte delle riproduzioni dei volti nell’antichità sono fatte di profilo perché “nell’arte il profilo non è mai stato una “posa” qualsiasi, ha spesso assunto un valore simbolico: esattamente quello di essere guardati dagli altri”, invece il volto di fronte “spetta a pochissimi personaggi “speciali” […] un caso esemplare è quello di Medusa e c’è una ragione precisa: Medusa è la gorgone che pietrifica chi osa guardarla negli occhi, così, per dare forma al suo sguardo fatale, i pittori ce la presentano mentre fissa lo spettatore e […] guarda "in camera"”. Quando ci imbattiamo in una nostra foto di profilo spesso non ci riconosciamo. Lo stesso accade quando ascoltiamo la nostra voce registrata, eppure Schopenhauer dice: “Una lieve incurvatura del naso, in giù o in su, ha deciso della felicità della vita di innumerevoli ragazze”.
Falcinelli ci fa notare, senza scomodare Lombroso o Lavater (teologo svizzero, quest’ultimo, “teorico dei profili”), oppure proprio scomodandoli, che in Cenerentola di Walt Disney del 1950 ogni personaggio ha il suo proprio naso. “Come di prammatica, la protagonista lo ha piccolo e dritto […] la matrigna adunco, spigoloso e con una leggera gobba, […] qualcosa di più simile al profilo di Cesare, ossia quello del condottiero, oggi diremmo da “classe dirigente””.
“Il volto frontale” scrive ancora Falcinelli riferendosi all’arte antica “è l’analogo di una prima persona singolare, qualcuno che dice “io”, rivolgendosi allo spettatore; mentre il profilo è un “egli” o un’“ella” che agisce dentro la storia; e dunque qualcuno di guardato o raccontato. […] Gli artisti del passato dipingono il mondo come lo pensano non come lo vedono”.
E in effetti la scelta formale si sovrappone sempre all’oggetto rappresentato. Anche quando il realismo visivo comincia a imporsi. Accade nella Grecia del V secolo, che fa della mimesis, l’imitazione della realtà, una categoria con cui guardare e comprendere il mondo. Con questo scopo nascono le figure di tre quarti: non frontali e non di profilo. Per Aristotele si conosce attraverso la somiglianza, mentre per Platone, che ascrive la sostanza dell’esistente a un mondo di idee archetipiche, la riproduzione di qualcosa che è già “un’insorgenza degradata” mette il pittore in una posizione di “minorità conoscitiva”. Il filosofo cioè prende le distanze dall’arte “contemporanea” (a lui contemporanea) un po’ come noi siamo spaventati dalle immagini prodotte da DallE.
Perché c’è sempre qualcosa di inquietante nella ricerca della somiglianza, come se l’atto di fermare l’immagine di noi ci potesse togliere qualcosa, alla Dorian Gray. Si pensi alle cere di Madame Tussaud o alle bambole Reborn, identiche a neonati veri, non solo alla vista ma anche al tatto, che in qualche modo “ci fanno impressione”.
È una somiglianza complessa quella che viene cercata dagli artisti al tempo del secolo d’oro della grecità, una riproduzione con intenzione che contiene in sé anche il concetto di bellezza legata all’idealizzazione. “Non c’è un’unica via per idealizzare. In Nefertiti [il busto egiziano] i lineamenti sono veri ma divinizzati, in Pericle sono di fantasia e canonizzati”.
Anche noi, quando usiamo un app facciale per abbellire un selfie, facciamo delle scelte più o meno consapevoli che hanno a che fare con l’idea del bello. “Le operazioni alla base del processo sono a grandi linee le stesse: semplificare le forme; aumentare la simmetria; geometrizzare i volumi; graficizzare i tratti; e infine, nel caso delle immagini, scontornare il soggetto facendolo risaltare rispetto al fondo”. Il fotoritocco, ci racconta Falcinelli, nasce nel 1855 ad opera del pittore Franz Hanfstaengl, che ha inaugurato sulle foto dei volti la logica del “prima e dopo” mostrando come si potesse intervenire sui negativi per correggere i difetti.
C’è un modo in cui siamo e uno in cui vogliamo essere visti, insomma. Nei busti Pompeo si fa fare ai capelli l’anastolé di Alessandro Magno (ossia un andamento rotondo verso l’alto) con un chiaro intento politico, Augusto ha la frangia a forma di coda di rondine, ordinata e riconoscibile in tutto il suo vasto impero, in una rappresentazione che complessivamente rimanda al classicismo, con “quel registro impassibile e “perbene” che è presente in tante foto di politici novecenteschi: la barba rasata i capelli ordinati; scelte simili a quelle di John Fitzgerald Kennedy duemila anni dopo”. Sulla stessa linea c’è Antonino Pio che ha barba e capelli “cesellati dal barbiere (e dagli scultori) in tanti piccoli riccioli: vuole presentarsi pius e non violento guerriero. Caracalla, al contrario, sfoggia una testa rasata alla buona, le guance coperte di una peluria corta e ispida: è l’immagine del ruvido militare che non ha tempo da perdere dal barbiere”. Falcinelli ci mostra anche una serie di autoritratti di pittori e pittrici (Judith Leyster, Dürer, Velàzquez, Adélaïde Labille-Guiard) che si rappresentano, alcuni proprio mentre dipingono, vestiti in abiti elegantissimi che mai avrebbero utilizzato per lavorare: questo perché vogliono ribadire la loro posizione sociale.
Un best seller del 1895 recita nel frontespizio: “Appunti pratici per chi posa” e ha stravenduto perché agli albori della fotografia era molto faticoso farsi fotografare: bisognava rimanere immobili al sole per parecchi minuti e questo ci mostra quanto l’esito del gesto artistico possa essere il frutto di una collaborazione tra artista e soggetto rappresentato, in ambedue in versi, e quanto contenga una volontà. Rita Hayworth prima di diventare tale aveva nome e aspetto ben diversi. La Columbia, quando si rende conto che l’immagine di Margarita Carmen Cansino non funziona, la stravolge, facendole addirittura modificare l’attaccatura dei capelli con l’elettrolisi e tingendola di rosso. “Da irlandese” a Rita Hayworth arriva il successo.
E come vogliamo essere visti?
Marylin ha lasciato indicazioni su come essere truccata il giorno in cui sarebbe morta: “un quarto di “maxfactor”, mezza tazza di colorante avorio e una goccia di bianco di clown” e due secoli prima anche Maria Antonietta volle essere truccata prima di salire alla ghigliottina. L’American Society of Plastic Surgeons ha rivelato che nel 2017 chi si rifaceva il naso chiedeva di farlo perché non si piaceva nei selfie, in cui peraltro è noto che sembra sempre più lungo di quanto non sia realmente. Ecco quindi come tecnica, volontà e cultura si mescolino e si influenzino. Bernini, ci racconta Falcinelli, diceva: “Per ben imitare il naturale bisogna fare qualcosa che ben naturale non è” e poi l’autore indugia a raccontare di come gli artisti lo abbiano fatto, all’atto pratico (e non alludeva certo alla rinoplastica).
Ma la domanda sul bello resta e Falcinelli è maestro, in questo libro come nei precedenti, nello sgrovigliare la matassa. “La bellezza, a dispetto di quanto si creda,” scrive a pagina 417 “non è un potere di tipo erotico, ma sociale. […] Credere che l’abbellimento serva per sedurre è un punto di vista un po’ romantico: in realtà, ci si trucca per sé stessi, per apparire in un certo modo dentro una specifica società”.
Eppure c’è qualcosa, nei volti e nella loro riproduzione, che va oltre l’apparenza materiale, e tende a salire verso il cielo. È in qualche modo l’anima. Falcinelli, abilissimo osservatore, ci fa notare come il punto di luce negli occhi sia una scelta molto comune da parte degli artisti (e in realtà anche dei truccatori solo che questi ultimi, non potendolo inserire dentro l’occhio, lo posizionano sul dotto lacrimale). Alle volte però, anche quando non può davvero essere un riflesso di luce attraverso una finestra, questo punto luminoso ha ne proprio le fattezze. Persino negli occhi di Gesù sul Golgota, dove senz’altro non c’erano finestre. “La finestra” ci spiega Falcinelli “rappresenta un simbolo dell’Annunciazione” perché Maria vi è spesso paragonata, quindi “il momento in cui Cristo è stato concepito è rappresentato assieme a quello della sua morte”.
Nel guardare un volto, quindi, vediamo molto di più di una serie di fattezze geometriche e fisiche: ci illudiamo di vederne l’anima. “Il cervello si è evoluto proprio per giudicare dalle prime impressioni” scrive l’autore “la mente è portata, per ragioni di efficienza, a ragionare tramite pregiudizi visivi, anzi potremmo affermare che il pregiudizio è un meccanismo strutturale della visione” e continua: “il malinteso millenario legato alla fisiognomica è stato credere che ci fosse un legame tra aspetto e personalità, mentre il legame esiste, ma è tra l’aspetto e le impressioni di chi guarda”.
È dimostrato scientificamente che davanti alle facce, “ci attiviamo”. Non a caso le vediamo anche dove non ci sono (la famosa pareidolia) e secondo gli esperti di neuroscienze il riconoscimento delle persone a cui vogliamo bene (la madre, nel caso di Falcinelli, il quale era capace di distinguerla dalla sorella gemella anche in foto) avviene in modo emotivo. C’è una zona del cervello, infatti, il giro fusiforme, che viene fortemente coinvolta quando siamo posti di fronte a qualcosa di “facciomorfo” e la quantità di scarica generata dal neurone aumenta proporzionalmente se ciò che guardiamo è un oggetto, una rappresentazione di un volto umano, ancora di più uno conosciuto, o infine la persona in carne ed ossa. Certo è che non riusciamo a fare a meno di “fotografarci e fotografare quelli a cui vogliamo bene: la costruzione della memoria è qualcosa di ineliminabile dal nostro rapporto con le immagini”.
Ci spaventiamo davanti alle possibilità dell’intelligenza artificiale che oramai sa riconoscere e riprodurre non solo volti ma un’infinità d’altro convinti che in qualche modo ci soppianterà. Invece Falcinelli in questo libro scrive una frase che merita di restare indelebile nelle nostre menti: “Non esiste un vedere umano senza desiderio”. “Quando noi umani osserviamo una scena con delle facce, non ci limitiamo a scandagliare lo spazio, bensì, subito, senza concettualizzare, sappiamo che una faccia ci è simpatica, una ci risulta odiosa, con un’altra ci faremmo volentieri l’amore”.
Il desiderio, ecco cosa ci rende eccezionali. Sia quando guardiamo che quando siamo guardati. E quando usiamo le nostre capacità per generare artefatti, arte, memoria.
“ Non esiste un vedere umano senza desiderio Riccardo Falcinelli