CULTURA

Sullo scaffale: La giusta distanza dal male di Giorgia Protti, un viaggio dentro il pronto soccorso

Non c’è da pensare che Giorgia Protti, classe 1988, al suo esordio volesse raccontare, come scopo ultimo del libro, il mondo della medicina d’urgenza, ma questo è quello che è di fatto accaduto. E si aprono scorci avvincenti per più di una ragione.

Proprio in tempi recenti Solange Fugger, alla guida di un pronto soccorso romano, è salita alla ribalta delle cronache (anche) per il seguito ottenuto su Tik Tok con i suoi racconti di cosa succede dentro un luogo che, per quanto ci sia accessibile (sperando sempre di non finirci mai), in realtà, nelle sue dinamiche, è opaco al paziente e alla società civile tutta.

Lo stesso tipo di fascinazione si subisce leggendo La giusta distanza dal male (Einaudi, 2025) in cui Protti, medico internista per molti anni operativa in un pronto soccorso, inventa un io narrante con tutta probabilità molto vicino alla sua esperienza e ci porta con sé dentro l’ospedale.

Così possiamo vedere finalmente com’è dall’altra parte, e si comincia sconfessando la gerarchia che intuitivamente ci verrebbe di applicare: “Appena cominci a lavorare al Pronto soccorso, tutti i colleghi più anziani ti ripetono come un mantra la stessa raccomandazione: devi tenerti buoni gli infermieri” (cosa che a questo punto vale la pena ricordare anche da pazienti); per poi proseguire scoprendo quali sono le congiunture interne, anche volute dal caso: “Un’altra peculiarità inspiegabile è che, spesso, i pazienti arrivano tutti insieme con lo stesso problema. Lo sanno bene gli specialisti: c’è la giornata degli ictus cerebrali, la giornata degli infarti miocardici, quella delle emorragie gastrointestinali e quella delle fratture di femore. È una statistica che va al di là delle influenze stagionali, delle feste comandate, del ritmo circadiano e di qualsiasi altro fattore causale: fino a prova contraria, una fatalità”.

E non è così facile nemmeno reperire il collega giusto al momento giusto: bisogna passare per il centralino e può succedere che al posto di un urologo arrivi un neurologo e viceversa, quando chi lavora (insieme a chi è lì a farsi soccorrere) ha i secondi contati e deve esercitare l’intuizione (oltre che l’esperienza) sì, ma poi ha bisogno di smistare i malati agli specialisti, quantomeno per una consulenza o per un esame di approfondimento. Tocca inevitabilmente alle volte, purtroppo, al medico “pronunciare la parola “morto”, anche se sembra dura o brutale o indelicata: è importante perché è vera, e i parenti hanno il diritto di sentirsi dire la verità. È compito del medico addossarsi il peso e la colpa di quella parola, assorbirne l’impatto, filtrarne almeno in parte la potenza distruttiva e presentarla ai parenti in un modo che sia per loro gestibile, affinché davanti a quella parola possano essere liberi di avere la reazione che sentono, qualunque essa sia”.

Il pronto soccorso è un luogo dove si raduna un’umanità sofferente in balia spesso del terrore di stare per morire o anche solo di non sapere cosa stia succedendo al proprio corpo.

Ogni singolo paziente viene in Pronto soccorso per un motivo preciso, anche di notte. Il problema è l’incongruenza: non è sempre un bisogno di salute, o non sempre è un bisogno di salute urgente. Ma il Pronto soccorso è lì, aperto e disponibile, quasi sempre gratuito; poco importa che non abbia sempre la risposta adeguata al marasma di richieste che riceve, tanto vale provarci”. Ma non è facile vivere in emergenza perenne, reale o presunta, assorbire la paura di chi cerca soccorso, mandare avanti le procedure, conservare l’umanità e il distacco pur esercitando l’empatia, soprattutto perché “in Pronto soccorso sono tutti arrabbiati con tutti. Operatori sanitari con altri operatori sanitari, pazienti con operatori sanitari, pazienti con altri pazienti. Ognuno di loro è arrabbiato perché si sente depredato di qualcosa: salute, attenzione, rispetto, informazioni, ma soprattutto tempo. E tutti vogliono essere risarciti, pienamente e subito”.

Protti ci racconta come il tempo scorra a velocità diverse lì dentro per medici e pazienti e, attraverso il suo io narrante, ci svela come chi ci lavora al proprio, di tempo, abbia praticamente abdicato: turni massacranti, notti in piedi seguite non da “smonto notte” ma da un nuovo turno con mente e corpo fiaccato. E poi brandelli di vita “fuori” che non è nemmeno possibile cercare di far aderire alla vita di chi dopo otto ore di lavoro, impiegatizio magari, può costruirsi uno spazio alternativo.

E infatti, per questa ragione, la protagonista del romanzo viene lasciata dal compagno con cui convive. E noi che leggiamo ci accorgiamo che, forse, il lavoro le basta. Gioiamo con lei delle diagnosi che conducono alla salvezza, ci colpisce la preparazione di chi davanti ai sintomi ne comprende al volo la causa, soffriamo per i casi senza speranza e, una volta in più, ci è inevitabile pensare a quanto il corpo umano sia una macchina perfetta ma con così tanti meccanismi da tenere oliati che un inceppamento non è poi così raro. Per i deboli di cuore (e di stomaco) alcune storie (i pazienti sono indicati con lettere puntate: che siano casi reali?) vanno lette molto velocemente per non soffrire troppo, eppure, in definitiva, il viaggio in cui Protti ci guida è un disvelamento morbosamente affascinante.

Ma il romanzo dov’è? Come sempre nel conflitto

Vivere accanto al dolore, a un passo dalla morte, lottare contro il tempo, temere di sbagliare quando lo sbaglio può essere esiziale, portare sulle proprie spalle la responsabilità della vita altrui non è facile e può essere altamente distruttivo. Il rischio è quello di perdersi. 

Ed è questo che, oltre alla vita di pronto soccorso, l’autrice ci racconta reinventando una figura che ha innervato non poca letteratura. Mimetizzato tra noi, in abiti stinti e trasandati, vive Lucifero, l’angelo caduto, il diavolo, che si palesa alla protagonista accompagnandola alla scoperta di cosa sia davvero l’inferno. Così lei gli può fare la fatidica domanda, che a maggior ragione chi ha vocato l’esistenza alla salvezza altrui non può non fare: “Mi dici perché? Perché cosa? Perché il male. Perché tutto questo male. [Lucifero] piega un angolo della bocca in un sorriso storto: Se fossi in te, mi farei un’altra domanda: perché il bene?”.

Mi dici perché? Perché cosa? Perché il male. Perché tutto questo male. Se fossi in te, mi farei un’altra domanda: perché il bene? Giorgia Protti

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