Chi si rivede, l’inflazione. Con il mese di gennaio, gli indici dei prezzi sono tornati all’insù in tutt’Europa e anche in Italia. Nel pieno di una recessione di portata e origine senza precedenti, tutti gli scenari scritti prima della pandemia saltano – si parlava, fino a un anno fa, dell’era della grande stagflazione, ossia stagnazione dei prezzi e della produzione. Adesso, mentre la gran parte del mondo è ancora lontana dalla ripresa dopo la botta del 2020, ci si interroga sui motivi del risveglio dei prezzi, e già ci si divide.
Da una parte i soliti falchi, con gli schemi del passato: in casa Bundesbank, tra i rigoristi della banca centrale tedesca, la tentazione è quella di tirare subito il freno a mano sulle politiche di aiuti monetari e fiscali. Dall’altra – stavolta più numerosa – quelli che sostengono che stringere i cordoni della borsa adesso sarebbe sbagliato, anzi darebbe il colpo di grazia a una economia già massacrata dal Covid-19.
A prima vista, i numeri di cui parliamo sembrerebbero non giustificare tanta agitazione. 0,9% nell’area dell’euro, 1,2% nell’intera Unione europea, 1,4% negli Stati Uniti. Siamo lontanissimi non solo dall’inflazione a 2 cifre, quella di un’era economica e politica oramai passata, ma anche da quella soglia che lo stesso statuto materiale della Bce considera come fisiologica, ossia tra il 2 e il 3%. Ma quello che ha colpito è stato il ritmo di aumento. Nell’eurozona, il passaggio dal meno 0,3% di dicembre al più 0,9 di gennaio costituisce il salto più grande in un decennio. Ha fatto rumore la previsione di Michael Burry, il manager di hedge fund diventato famoso per aver previsto la crisi dei mutui subprime nel 2007, interpretato da Christian Bale nel film The Big Short, che nella cavalcata dei numeri di questi giorni vede nientemeno che la premessa di un arrivo dell’iperfinflazione in stile Weimar (del resto, se ha scelto lo pseudonimo di Cassandra per scrivere su Twitter, ci sarà un motivo).
“ Ma invece di scrutare nei numeri del futuro, sarebbe meglio forse andare a indagare le cause della fiammata dei prezzi delle ultime settimane
Nell’area dell’euro, il contributo maggiore all’aumento di gennaio è venuto dai servizi, seguiti dai beni industriali (con esclusione dell’energia) e dall’alimentare, mentre i prodotti energetici hanno dato un contributo negativo, ossia i loro prezzi sono ancora in discesa. Anche negli Stati Uniti sono i servizi a guidare la ripresa dei prezzi – in particolare quelli sanitari ed educativi – insieme al settore food, ma ci sono poi alcune caratteristiche nazionali, come un boom dei prezzi delle auto usate, e i rincari di elettricità e gas legati alle ondate di gelo: in questo caso, anche con fenomeni speculativi particolari, come il caso del Texas dove i prezzi dell’energia elettrica sono esplosi all’iperbolico tasso del 10.000 per cento, dopo che il grande gelo ha mandato in tilt la metà dei generatori dello Stato. La “lockdown economy” ha poi inciso, oltre che sull’andamento della domanda nei vari comparti, anche sulla stagionalità: per esempio una parte del rialzo dei prezzi dell’Italia (più 0,7% in gennaio) si deve al fatto che la stagione dei saldi di fatto non c’è stata, o è stata a macchia di leopardo, mentre tradizionalmente in quel mese si sconta un ribasso dei prezzi dell’abbigliamento e calzature.
Ciò detto, ci sono alcuni tratti comuni che consigliano grande cautela nell’interpretare l’inflazione da Covid con le categorie tradizionali. Secondo lo schema di scuola, gli economisti distinguono tra inflazione “da costi” e “da domanda”: la prima si determina dal lato della produzione, per esempio se salgono i prezzi delle materie prime, o dell’energia, o i salari; la seconda dal lato del consumo, se c’è molta domanda pagante su una quantità di beni limitata. Con l’economia messa in ginocchio dalla pandemia, la riduzione dei redditi e le perdite di posti di lavoro, l’impossibilità materiale di fare alcune spese, quali quelle legate ai consumi da tempo libero, nonché l’aumento del risparmio in via cautelare che sta caratterizzando quasi tutto il mondo occidentale, non pare proprio che siamo in presenza di una inflazione “da domanda”. Mentre gli choc da offerta sono di tutti i tipi. Quelli all’ultimo miglio, derivanti dalle restrizioni e chiusure. Ma anche quelli che incidono su tutta la catena della produzione. All’inizio della pandemia, i produttori e assemblatori europei e americani si sono trovati in difficoltà per la carenza di semilavorati dalla Cina chiusa per lockdown. Adesso, la ripresa dei commerci ha provocato dei colli di bottiglia nella logistica: il costo del trasporto di un container da 40 piedi dalla Cina all’Europa è passato dai 1.400 dollari del marzo scorso a 8.000 dollari nel gennaio 2021. Ai colli di bottiglia nella logistica si aggiunge il riassestamento dell’offerta tra le varie produzioni: negli Stati Uniti e in Europa, molti stabilimenti automobilistici si sono messi in stand-by e hanno mandato a casa gli operai poiché mancavano i semiconduttori, assorbiti da una maggiore domanda dall’industria elettronica. È possibile che si tratti solo di difficoltà transitorie, come quelle di un motore che deve riaccendersi dopo essere stato spento in modo non ortodosso per un’emergenza; ma è anche probabile che sia solo l’inizio di un riassestamento dei commerci mondiali, se si pensa alle manovre già in corso per riportare in patria, sia negli Usa che in qualche caso in Europa, almeno una parte delle catene del valore, per evitare di trovarsi in futuro esposti a choc del genere.
Da questo quadro emerge un complesso di fattori che stanno alimentando l’inflazione da pandemia, che è certo accompagnata da una grande disponibilità di liquidità dovuta alle politiche monetarie “morbide”, alla spesa pubblica e ai deficit dei governi, ma che non è da questi determinata. E i falchi della Bundesbank appaiono abbastanza isolati, al momento, nel chiedere di invertire già la rotta e riportare i bilanci verso il pareggio e i tassi verso l’alto. Nel comparare il pacchetto di stimolo fiscale europeo – il Next generation EU – a quello statunitense, un editoriale del Financial Times chiede anzi all’Europa di osare di più. Del resto, l’inflazione può far paura per il futuro, ma la recessione è una realtà, durissima, del presente.