Secondo Claudio Giunta, Tommaso Labranca (1962-2016) è stato uno dei pochi in Italia, e forse l’unico, che ha analizzato con profondità, comprensione e assenza di pregiudizio la cultura di massa degli ultimi trent’anni, gli stili di vita nazionali e gli oggetti che li accompagnano e, in anticipo su tanti, le degenerazioni dell’universo social. Allo stesso tempo Labranca è stato, anche in questo caso, uno dei pochi in grado di smascherare il sussiego, la finta profondità e l’ovvietà di certa cultura ‘alta’. Il saggio di Giunta, Le alternative non esistono. La vita e le opere di Tommaso Labranca, Il Mulino 2020, che insegna letteratura Italiana a Trento, intreccia considerazioni storiche e critiche sulle opere di Labranca e una partecipazione umana alla sua vicenda esistenziale fino a spingersi a ripercorrere, per meglio intenderlo, i luoghi, pochi a dire il vero, della sua vita: Milano e la sua periferia, la Svizzera. La probabile ragione pratica di questo libro è forse l’omaggio, da parte dell’autore, a chi lo ha svegliato da quel sonno dogmatico che gli faceva credere all’esclusività della cultura ‘seria’ o accademica che negava valore e dignità di studio, se non propria legittimità, a fenomeni come l’intrattenimento televisivo, la pubblicità, il pop, le tivù locali. Lo sguardo di Labranca si allargava su figure e luoghi come Fantozzi, Renato Zero, Orietta Berti, il cinema dei Vanzina, le villette a schiera brianzole, ipermercati e tangenziali, e si aggiunga la lingua universale della disco music degli anni’80, il neoproletariato dell XXI secolo.
Labranca si poteva permettere la comprensione dei prodotti della cultura popolare perché era libero da quel pregiudizio estetico che può generare una istruzione formale e universitaria, era un geniale e coltissimo autodidatta in possesso di una educazione sentimentale catodica, come tutti quelli nati dalla fine degli anni sessanta del secolo scorso, che gli consentiva una libertà e profondità di giudizio su quella che era considerata roba di serie B: facile scrivere di Bob Dylan ma di Orietta Berti?: «L’Italia è un paese che non rispetta la cultura di massa e chi se ne occupa», scrive Giunta. Labranca capiva quel mondo della creatività di massa perchè lo conosceva dall’interno ed era sufficientemente ecumenico da tenere in una mano Cronaca Vera, fino addirittura a scriverci negli ultimi anni di vita, e nell’altra una rivista raffinata come FMR ( Franco Maria Ricci). Un po’ come nella copertina di Sergent Pepper, dove si potevano incrociare senza confondersi l’alto e il basso, l’effimero e il duraturo, Marx e Tom Mix, Stockhausen e Johnny Weismuller, si trattava di capire le funzioni e le finalità degli uni e degli altri e tutto questo con più empatia dell’Umberto Eco di Apocalittici e integrati, un libro certo importante al suo apparire. Labranca capiva, molto meglio di tanti intellettuali che pensavano di parlare in nome del popolo, che una icona della canzone popolare come Orietta Berti era espressione di quello i tedeschi chiamano senza disprezzo Volksmusik e della medietà sentimentale di quel tipo di italiano che amava virtù come la modestia, il ballo, il buon umore. Grazie a Labranca si poteva dare un occhio a Fiorello o a Sanremo senza cattiva coscienza, apprezzandoli in quanto sapevano fare bene cioè che era conforme al loro fine, cioè intrattenere. La cultura televisiva non è necessariamente alienazione e istupidimento e Labranca, che non perdeva il senso delle distinzioni o, se si vuole, delle gerarchie cerca di spiegare a Roberto Calasso, in pagine memorabili, perché Fiorello è bravisissimo nel suo specifico territorio nazional-popolare e aggiunge: «Se sei un personaggio pop, dedito a cose pop sei segnato: sei un cretino. Se sei invece un intellettuale, puoi essere anche Emanuele Trevi che tanto va bene lo stesso, sarai celebrato e tenuto in grande considerazione».
Labranca andava fiero delle sue concettualizzazioni che nominavano e rivelavano, come fosse la prima volta, l’oggetto preso in esame, si trattava in fondo di sottrarre all’irredimibilità conoscitiva la popular culture. Negli anni Novanta Labranca acquisisce una certa visibilità (grazie a saggi come Andy Warhol era un coatto o Estasi del pecoreccio) con la teoria del Trash. Diverso dal Kitsch o dal Camp, il Trash, un capitolo decisivo della cultura di massa, è il risultato dell’emulazione fallita, la mediocre e malriuscita imitazione di un modello, scrive Giunta: «Essere trash non vuol dire fare una cosa male, vuol dire aspirare a fare o essere qualcosa che altri fanno o sono e che però è al di sopra delle proprie possibilità, quindi fallire nel tentativo con effetti comici, grotteschi, patetici». Facciamo degli esempi: il TG di Emilio Fede che imita la CNN, Little Tony che emula Elvis Presley, Nino D’Angelo, che aveva una sua necessità e una sua precisa dignità musicale, imitato pateticamente dall’ignoto Nino Ferretti e, si potrebbe aggiungere,il vertice del trash televisivo, Barbara D’Urso che emula Opray Winfrey. Con le analisi di Labranca, che provava come non sempre l’intelligenza viva dentro le università, si allarga la «sfera del criticabile, mostrando come parlare di cose triviali senza essere triviali a propria volta». Alla voce ‘Cultura’ de La nuova Enciclopedia Alberto Savinio scriveva: «La cultura ha principalmete lo scopo di far conoscere molte cose. Più cose si conoscono, meno importanza si dà a ciascuna cosa: meno fede, meno fede assoluta». Con l’analisi del cialtronismo, altra eccellente categorizzazione, nel saggio Chaltron Hescon uscito nel 1998 per Einaudi, Labranca coglie un momento strutturale della cultura e dell’antropologia nazionale. Il cialtronismo è un altro nome per dire retorica,ossia quando si privilegiano il pathos e la commozione al ragionamento, è la pervesione dell’emotività dell’infotainment, ma cialtronismo è anche quella cultura alta che dice ovvietà con enfasi smisurata o inutilmente complicata. Dirà Labranca che il cialtronismo produce stereotipi che rendono pigri e impediscono la conoscenza seria delle cose.
Giunta segue Labranca dall’inizio della sua attività, negli anni ottanta, al momento di maggior popolarità, negli anni novanta (autore Einaudi e autore televisivo, nel 1997 con Fabio Fazio firma il successo di Anima mia), fino agli ultimi anni di marginalizzazione, anche economica, che gli faceva invidiare quei «fortunati dipendenti con tredici mensilità fisse, i ticket restaurant, malattie e ferie pagate». Labranca diceva che non avrebbe mai collaborato a programmi dove il massimo sarebbe stato «scrivere domande stupide sull’ultimo album di Ligabue per un’altra puntata di Che tempo che fa». Probabimente riguardo alla televisione aveva in mente una cosa come quella di Louis C.K., uno dei maggior stand-up comedian americani: «devo entrare in questa scatola e rendere migliore questa merda», ma questo gli era impossibile per una sua certa intransigenza sulla qualità dei media e sui cui Giunta riflette con equilibrio. Sono anni di risentimento e invidia per chi, invece, aveva avuto successo, un drop-out di straordinaria acutezza che covava rancore e amarezza per non essere riconosciuto come si doveva, se non come esperto di superficialità. Sembra che Labranca fosse talmente puro da non contemplare nemmeno la necessità del compromesso (con i dirigenti televisivi e con l’industria culturale in genere), che non vuol dire sempre vendersi l’anima, ma è anche accettabile realismo e capacità di modellare i mezzi al fine. Labranca però non voleva negoziare il fine e tantomeno i mezzi. Aveva capito che accettare il compromesso e i limiti dello show business era sì un modo come un altro di perdere la vita, ma un modo che per lui non sarebbe stato il più onorevole.