CULTURA

Il “Für ewig” di Gramsci e la sua (possibile) attualità

Per circa dieci anni Antonio Gramsci fu isolato dal regime fascista prima al confino poi lungamente in carcere. Di questi tempi, cento anni fa, aveva appunto avuto un figlio dalla moglie Giulia Schucht e ne progettavano un altro, girava per l’Italia da deputato eletto e per l’Europa da dirigente comunista, lavorava e si spostava tanto, leggeva e scriveva quel che poteva e doveva, coordinava riunioni dove ascoltava e parlava autorevolmente, si arrangiava con i propri problemi fisici e di salute. Perlopiù, le sue attività erano scelte, in vario modo. Anche all’inizio del confino sull’isola di Ustica fu in parte così. In carcere, no. Non era più libero di scegliere praticamente nulla, ai vari livelli e compartimenti dell’umana esistenza. Per quel poco che poté scrivere gli capitò di usare un’espressione sulla quale può essere utile riflettere anche nel nuovo millennio: Für ewig.

La prima citazione del Für ewig

L’espressione compare incidentalmente nei Quaderni del carcere (pubblicati postumi, si sa), clamorosamente per la prima volta nella lettera alla cognata Tania del 19 marzo 1927, era a Milano da gennaio in attesa del processo al tribunale speciale (in via di istituzione) poi svoltosi a maggio 1928, oltre un anno dopo. In quella lettera Gramsci ha ormai piena consapevolezza che lo terranno a lungo e dolorosamente prigioniero, prova a enunciare per la prima volta un progetto minimo attivo di vita carceraria culturale ed emotiva, una re-azione alla nuova condizione storicamente determinata. Le scrive di essere «assillato (è questo fenomeno proprio dei carcerati, penso) da questa idea: che bisognerebbe far qualcosa “für ewig”, secondo una complessa concezione di Goethe, che ricordo aver tormentato molto il nostro Pascoli. Insomma, vorrei, secondo un piano prestabilito, occuparmi intensamente e sistematicamente di qualche soggetto che mi assorbisse e centralizzasse la mia vita interiore». Insomma: trovare una qualche ragione per la propria sopravvivenza.

Si è molto dibattuto sulla traduzione dell’espressione tedesca, letteralmente “per sempre”, o per l’eternità, o per perpetuità (meglio), sulla complessità del significato anche a partire dalla relazione con gli autori citati, Goethe e Pascoli, volutamente letterari e inoffensivi. Vi è innanzitutto il denso riferimento alla “concezione” di Goethe (relativa allo scorrere del tempo, alla transitorietà dell’esistenza umana e alla serenità dei grandi ideali), uno scrittore conosciuto (frequenti i riferimenti al dramma Faust, 1808) e pure tradotto da Gramsci; Goethe autore fra l’altro proprio di una lirica intitolata Für ewig, di argomento sentimentale. Vi è poi l’allusione a Pascoli, anch’egli autore di una lirica intitolata Per sempre, raccolta nei Canti di Castelvecchio, di cui Gramsci rimarcherà successivamente all’interno del noto quaderno 2 sulla letteratura l’“intima contraddizione”, fra l’annunciata rinuncia alla partecipazione alla vita attiva e la pur giusta concezione dell’Ewig, riflettendo sulla seguente frase (per lui attuale) del poeta: “Parlerei d’arte e di letteratura e di scienza e di morale, cercando sempre di sradicare i pregiudizi e di porre in faccia alla moda l’Ewig e di contro all’oggi, l’ieri e il domani”.

Gramsci esprime a parole ciò su cui evidentemente medita da mesi, fra sé e sé, “assillato”: forse può esservi per lui una funzione dello scrivere, per quanto limitata nelle regole (i fogli concessi) e censurata nel merito (le lettere, ma potenzialmente soprattutto “altro” che vorrebbe iniziare a stendere), un’occupazione interessata solo a far funzionare il cervello, a concentrare i pensieri, ad alleviare la reclusione fisica, a dialogare con scrittori e personaggi, a influenzare il futuro. La scrittura forse può consentire di reinserire “il tempo” in una dimensione progettuale e costruttiva, a impedire la molecolare distruzione della vita interiore e la contemplazione dolorosa della propria lenta agonia. Potrebbe allora tentare di scrivere für ewig, occupare la prigione terrena per andare oltre la propria vita scandita dall’assoluto potere altrui e, magari, oltre la morte, vergando fogli a righe, cercando fili intellettuali, militando razionalmente con il sé stesso solo e vissuto, sperando che sopravvivano proprie azioni e idee. In altre lettere (per esempio il 24 luglio 1933, sempre a Tania) tornerà su questa forma di “immortalità” per “incorporarsi … al processo storico universale” quando si è costretti “all’infuori della nostra volontà”.

Nei passaggi successivi del marzo 1927, Gramsci stesso “traduce” l’espressione con l’aggettivo disinteressato (riprendendo il termine forse da Salvemini, comunque non qualcosa di apolitico e senza scopo). Nella sua testa turbina di dover fare “qualcosa”, annuncia un proposito ma, per intanto, Gramsci può scrivere solo lettere in orari rigidi su fogli centellinati, da consegnare ai carcerieri e ai censori, destinate ad arrivare non in breve tempo, nell’incertezza della condizione anche dei cari cui sono rivolte (quelle che sarebbero divenute postume le Lettere dal carcere). Gramsci riceve l’autorizzazione a scrivere in cella solo nel gennaio 1929, diciotto mesi dopo aver espresso nella lettera il desiderio di scrivere für ewig e dopo aver ricevuto e letto alcuni dei tanti libri che aveva chiesto (sui quattro temi coerenti con il piano di lavoro), costretto a rimuginare internamente a lungo sulle poche fonti narrative scritte disponibili per analizzare i fatti storici determinatisi.

Con il far qualcosa di disinteressato, Gramsci non prende quindi in considerazione un disimpegno per la censura e l’autocensura, è piuttosto un impegno obbligato per resistere al carcere, senza finalità certe, senza interlocutori intellettuali (o lettori) contemporanei, senza gravi sospetti per chi lo tiene lì dentro, apparentemente senza spunti sulla contingenza politica, sociale e culturale; piuttosto, l’unica forma a lui probabilmente possibile, per una funzione personale nella storia; comunque, un piano d’azione (mentale e progressivo), una ricerca svincolata da esigenze immediate, uno strumento volitivo nella “guerra di posizione” cui è costretto, un dialogo differito. In una lettera del 1932 (il 28 marzo 1932, a Iulca, Giulia) chiarirà che per un’attività scientifica o artistica, essere disinteressata “non vuol dire campata nelle nuvole”, bensì “interessata” nel senso non immediato e meccanico della parola”. In cella il “disinteresse” avvolge tutto, decidono altri sul contesto e sui ritmi, e un corpo malato aggiunge dolori e impossibilità.

Non mi piace tirar sassi nel buio; voglio sentire un interlocutore o un avversario in concreto Gramsci, lettera a Tatiana (1930)

La questione dell’interesse non è estranea alla sua formazione, Gramsci sa che senza “interesse” non si conosce né si partecipa e che un certo “disinteresse” è comunque utile allo studio, alla ricerca, alla scrittura, alla politica, alla vita. Scrive Gramsci nel 1930 (il 15 dicembre, a Tatiana): “Sarà perché tutta la mia formazione intellettuale è stata di ordine polemico; anche il pensare “disinteressatamente” mi è difficile, cioè lo studio per lo studio. Solo qualche volta, ma di rado, mi capita di dimenticarmi in un determinato ordine di riflessioni, e di trovare per dir così, nelle cose in sé l’interesse per dedicarmi alla loro analisi. Ordinariamente mi è necessario pormi da un punto di vista dialogico o dialettico, altrimenti non sento nessuno stimolo intellettuale. Come ti ho detto una volta, non mi piace tirar sassi nel buio; voglio sentire un interlocutore o un avversario in concreto”. Negli anni ha verificato che in carcere si possono quasi soltanto tirare sassi nel buio, scrivere è stata una sfida e gli ha dato una ragione e una funzione, nel nome del “disinteresse”.

Così, già nella lettera (iniziale) del marzo 1927 (poco più di cinque mesi dopo essere stato arrestato da deputato in carica e inviato al confino, un mese e mezzo dopo l’arrivo nel carcere di Milano), Gramsci prova a illustrare quattro temi di elaborazione dei propri pensieri logici. Per il primo tema, Gramsci indica la necessità (lì dentro disinteressata) di “una ricerca sulla formazione dello spirito pubblico in Italia nel secolo scorso; in altre parole, una ricerca sugli intellettuali italiani, le loro origini, i loro raggruppamenti secondo le correnti della cultura, i loro diversi modi di pensare” e, alludendo al proprio “rapidissimo e superficialissimo” famoso testo sull’Italia meridionale (ottobre 1926) e sulla importanza di Croce (qui cita solo lui), dichiara di voler svolgere ampiamente il nucleo della tesi “allora abbozzato”, questa volta da un punto di vista “disinteressato”, lo ripete: “Für ewig”. Sono state scritte innumerevoli pagine nel merito di questo primo tema, collocandolo nel percorso biobibliografico gramsciano e nella storia del pensiero comunista, liberale, anarchico di quei decenni. Limitiamoci al “disinteresse”, in carcere Gramsci si dà un preliminare progetto ideale di lavoro scientifico, in quel momento ripensare la filosofia della prassi come superamento di Croce, del pensiero dell’etico-politico crociano.

Il secondo punto di possibile lavoro è “uno studio di linguistica comparata! Niente meno. Ma che cosa potrebbe essere più disinteressato e für ewig di ciò?”, scrive nella lettera, quasi in modo difensivo verso chi leggerà e autoironico verso il sé stesso che aveva un grande interesse “politico” per la materia (era sardo, il suo professore a Torino veniva da una zona di confine, lo stesso “italiano” esisteva da pochi decenni ed era materia ancora incandescente) e dovrà solo stilare quaderni. I restanti due nuclei di “interesse” sistematico da recluso sono, in sintesi, il teatro di Pirandello e i romanzi d’appendice. Aggiunge poi: «A chi bene osservi, tra questi quattro argomenti esiste omogeneità: lo spirito popolare creativo, nelle sue diverse fasi e gradi di sviluppo, è alla base di essi in misura uguale”. Taluni interpreti hanno insistito sull’interesse politico dell’apparente disinteresse pratico, quasi una “falsa pista”, uno “stratagemma”, il tentativo di nascondere all'aguzzino fascista il vero obiettivo polemico contingente del progetto di scrittura. Forse non è proprio o soltanto così.

Il nesso tra pensiero e prassi

Certo, il destinatario eventuale dei pensieri era il soggetto storico rivoluzionario di cui Gramsci si sentiva parte. Tuttavia, prevalentemente, il prigioniero sperava di fare di necessità virtù. Non aveva nessuna intenzione di esercitare speculazione filosofica, tanto meno ovviamente erudizione. Conosceva il valore del tempo “sprecato”, con parole a vuoto e falsi dilemmi, e conosceva pure il valore dell’autonomia intellettuale e della lotta culturale. I temi di cui avrebbe parlato sono quelli che avevano occupato gli studi scolastici e universitari nel primo ventennio del secolo, presto accompagnati dalla militanza politica e dalla scrittura giornalistica. Continuava a considerare inscindibile il nesso fra pensiero e prassi; tuttavia, da fine 1926 alla morte, l’azione morale e sociale era “imprigionata”, ne prese atto, non si trattava di una ritirata tattica. Si diede uno strumento di sopravvivenza, orizzonti strategicamente dilatati, forse proprio per questo meritevoli di considerazione ancor oggi, non solo considerata la qualità ma anche apprezzato il metodo del suo pensare e scrivere.

Gramsci ragionava sul für ewig anche prima di esserne costretto in carcere, soprattutto quando aveva deciso di diventare un motivato pedante studioso di linguistica a Torino, nonostante la drammatica mancanza di mezzi, la salute malferma e la già forte passione politica militante. La linguistica era (ed è) luogo di confronto e scontro intellettuale. L’interesse e gli interessi sono una tensione soprattutto della vita libera, delle azioni che si scelgono nella relazione con gli altri, o che si credono di scegliere. Una certa dose di disinteresse non è mai male, magari piccola, complementare, consapevole degli altri interessi in campo, sia nelle dinamiche storiche collettive sia nelle esperienze esistenziali individuali. Difficile oggi, per molti di noi, immaginare un decennio in prigione, costretti da pubbliche istituzioni a sopravvivere detenuti. Sappiamo che le costrizioni possono essere anche altre (economiche, fisiche, emotive) e che spesso presumiamo vi siano gradi di (nostra) libertà laddove le azioni sono guidate da dinamiche biologiche o psicologiche imposte (o almeno condizionate) da altri.

Si è interessati, talora con concupiscenza; non indifferenti, talora con complicità. L’etimologia e la percezione di “interesse” è ancestralmente ambivalente. Come per la libertà, la questione è necessariamente da graduare. Il “troppo” interesse è una componente delle azioni economiche e politiche, professionali e affettive, e “troppo” lo diventa quasi sempre perché il nostro interesse economico prevarica i diritti di altri, il nostro interesse politico prescinde dall’isomorfia, il nostro interesse professionale prescinde dalla coerenza, il nostro interesse quotidiano prescinde dal giorno prima e dal giorno dopo. Risulta ancora una volta preferibile non farci sopra ideologia o moralismo, non è questione di egoismo e buonismo, ma dell’interessata soddisfazione sapiente nelle proprie azioni umane. Noi e quanti altri, e come, ne abbiamo e ne hanno in qualche modo tratto beneficio, più o meno interessato.

Vale molto anche per la scienza, per la ricerca e la divulgazione scientifiche: valutare il contesto sociale collettivo, relativizzare il proprio interesse accademico, assumere una prospettiva evoluzionistica. Un certo disinteresse aiuta a prendere un po’ più per quel che sono i fatti (che ci accadono), a dichiarare quelli che risultano i propri sinceri relativi interessi, ad ascoltare e leggere meglio gli altri per quel che dicono e scrivono (più che per il titolo o lo status), a donare tempo e voglia ad altrui pensieri e interessi (con curiosa gentilezza). Mantenersi ad arte per scelta un pochino disinteressati limita le contrapposizioni totali, probabilmente anche egocentrismo e narcisismo; e non riguarda solo la speculazione filosofica astratta. Sugli interessi la bibliografia delle scienze sociali è già sterminata, ma un certo disinteresse ha a che vedere con tutte le scienze, con la curiosità e con la serendipità.

Parliamo di quella “controllata distrazione per non essere mai troppo focalizzati su un solo obiettivo né troppo testardi quando gli esperimenti sono recalcitranti rispetto alle nostre aspettative; saper comprendere le anomalie rivelatrici e le deviazioni dai presupposti teorici di partenza”; un qualche “interesse” nel collaborare davvero con gli altri, nel non concentrarsi sui corrispettivi finanziari, nell’accettare punti di vista meno conformi e già schierati (con noi); un qualche disinteresse rispetto a “troppa fretta di pubblicare, le pressioni sui risultati e la concentrazione dei finanziamenti su poche linee di ricerca tradizionali già di comprovato successo”. Perpetuamente, für ewig.

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